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[Articolo pubblicato su Vinyl n.4 – Foto: © Will Sergeant, licenza CC, Attribution-Share Alike 2.0 Generic]

Quando arriviamo a casa di Will Sergeant, il chitarrista di Echo & The Bunnymen, è una splendida giornata di sole. Sul patio fanno bella mostra di sé le piante in vaso, con un lussureggiante giardino sullo sfondo. La porta d’ingresso è massiccia, gotica, sembra quasi strappata a forza dalle pagine di Bram Stoker.

Quando Will ci rivela che, una volta, la casa era un mausoleo, non ne siamo affatto sorpresi, anzi… mi sovviene la loro Killing Moon. Ci accomodiamo e, tazze in mano, iniziamo a parlare di dischi, di The Lost Boys e di come tenere così ben curato il cortile di casa.

I DISCHI DELLA VITA

La musica ha avuto un ruolo importante nella vita di Will, sin da quando era un ragazzino: «Ho iniziato a collezionare dischi da bambino», spiega. «La mia vita può essere raccontata dai miei vinili! Il mio primo ricordo risale a quando avevo dieci o undici anni, ero sempre in giro con questo mio amico, Richard… e suo fratello aveva il doppio EP di Magical Mystery Tour dei Beatles. Aveva anche un album orchestrale di Gustav Holst, intitolato The Planets, che ci affascinava: un LP interamente dedicato al Sistema solare, con una sezione per ogni pianeta. Poi ho iniziato a guardare Top of the Pops e a registrarlo con un mangiacassette Grundig. Mettevo il microfono davanti al televisore e registravo su nastro l’intero programma, così poi lo potevo riascoltare».

YOU CAN’T ALWAYS GET WHAT YOU WANT

Nonostante l’influenza classicheggiante di Holst, il primo acquisto in vinile di Sergeant è stata la compilation Gimme Shelter dei Rolling Stones. «In realtà ero andato al negozio per comprare Who’s Next degli Who, che era appena uscito», confida. «Ma era già esaurito! Per cui sono tornato a casa con gli Stones. Io sono di Liverpool, il sabato uscivo a fare compere con mio padre e solitamente andavo al NEMS (North End Music Store), che all’epoca era gestito dalla famiglia di Brian Epstein. Ricordo che un altro dei miei primi acquisti fu Andy Warhol’s Velvet Underground Featuring Nico, il doppio, con quella splendida copertina con la bottiglia della Coca-Cola. L’avevo comprato solo per quel motivo. La band non la conoscevo nemmeno, ma adoravo quell’immagine così warholiana. Quando l’ho ascoltato, però, non credevo alle mie orecchie, era del tutto diverso da qualsiasi cosa avessi mai ascoltato prima. Feci persino una presentazione a scuola su quel disco. Un giorno, uno scemo venne in classe a tenerci una lezione di macelleria, indossava un grembiule ed era pieno di coltelli fino ai denti, sembrava uscito da Non aprite quella porta… e, subito dopo, io tenni il mio discorso sui Velvet Underground! Non che abbia dovuto fare molto: sul retro della cover del disco c’era una lunga presentazione della band… l’ho copiata e l’ho letta! Quando io e Mac (Ian McCulloch, il cantante e autore dei Bunnymen – NDR) ci troviamo per suonare assieme, suoniamo alla Velvet Underground, o meglio… cerchiamo di suonare come loro! Se fossimo qui adesso, io e lui, avremmo in mente sempre loro, i Velvet».

Chiacchierando così amabilmente con Will, si rischia di dimenticare quanto siano stati importanti i Bunnymen. Così, irrimediabilmente, riporto il discorso al periodo d’oro della scena indipendente nel Nord dell’Inghilterra, quando negli anni ’70 sono venuti alla ribalta il punk e il post-punk.

«Avevo vent’anni circa e, per me, la grande band del momento erano i Buzzcocks. Ho ancora tutti i miei dischi originali dell’epoca e un po’ di altre cose. Andavo al Penny Lane Records, proprio a fianco al posto in cui lavoravo come cuoco. È lì che ho comprato il primo 12 pollici dei Joy Division, An Ideal for Living. Ne avevano a vagonate nei cestoni delle offerte. Nessuno sapeva che sarebbero diventati famosi. Mi ricordo esattamente la prima volta che ho visto la band, era da Eric’s a Liverpool. Ci andavo tutte le sere in cui era aperto, non importava chi suonasse, ci andavamo tutti. Era il 1978, o il ’79, probabilmente un giovedì, i Joy Division stavano suonando, ma nessuno li guardava, nessuno li aveva mai sentiti nominare. Io sono stato ad ascoltarli lì davanti al palco, in prima fila, e poi sono tornato dietro dagli altri e ho detto: “Dovreste dare un occhio a questi ragazzi, sono fenomenali!”. Mi avevano conquistato, e così è successo poi a tutti. Li ho rivisti un’altra volta da Eric’s, ma quella volta Ian Curtis ebbe una delle sue crisi. Dovettero tirarlo giù dal palco e portarlo in camerino. Alla fine fu Hooky a cantare per finire il set».

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