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O piuttosto la fabbrica della musica? Siamo stati in Warner Chappell, il tempio delle edizioni musicali di Warner Music Group, per scoprire come la professionalità non può fare a meno della passione.

[Articolo di Valentina Giampieri originariamente pubblicato su Vinyl n.8 – maggio 2019]

È inutile negarlo, c’è un cinismo ormai diffuso nei confronti dell’industria musicale. Si guarda alle major un po’ come Charlie guarda Willy Wonka che gli sbatte la porta in faccia dopo il tour della fabbrica di cioccolato: come a quelli che ci hanno infranto il sogno.
Se si abbandona per un attimo lo stereotipo, però, e si riapre quella porta, si scopre che, oltre, le cose non sono proprio come sembrano.

Mondo major

Intanto, di major ne restano tre. Cosa che le rende delle specie di galassie: cercano di coprire tutti i settori della musica e tutti i suoi ambiti, dai concerti al publishing.
Inoltre, in tutte le grandi società, mai come oggi costrette a sottostare alla frenesia della produzione, sicuramente ci sono persone che guardano soltanto al profitto. Eppure quello della musica è un mondo in cui ancora bruciano passioni.

Una società come Warner è un gigante che deve competere con altri due giganti: Universal e Sony. Mercato e profitto non possono mai uscire dall’equazione. In che misura trovano spazio le altre componenti, come il gusto personale, il coraggio, il rischio, il desiderio di contribuire a diffondere un po’ di qualità, o addirittura in qualche caso, dicendolo piano, arte?

Quali meccanismi?

Abbiamo provato a scoprirlo infiltrandoci nella tana del gigante e affidandoci a  tre “guide” che questo luogo lo conoscono bene: Diego Calvetti, Roberto Razzini e Sergio Vallarino (in arte Zibba).
Tutti e tre lavorano per Warner Chappell Music, la società globale di edizioni musicali di Warner Music Group che ricerca e forma autori e compositori, oltre a gestire e tutelare i repertori già esistenti.

Qui continua a funzionare il meccanismo più antico dell’industria discografica, quello in auge decenni prima che la discografia subappaltasse alla tv o a YouTube il compito di indicarle i talenti su cui puntare. Prima ancora di farne il loro mestiere, Roberto Razzini, Zibba e Diego Calvetti si sono avvicinati alla musica per passione, ma dai loro esordi le cose sono cambiate. E non poco.

Passato e presente

«Negli anni ’80 – ricorda Razzini – uscivano Madonna con True Blue, Zucchero con Blue’s, vendevano un milione e mezzo di dischi e si monitorava il successo del prodotto sulla base di quelle copie vendute. L’economia legata al business della musica era completamente diversa: aveva nel disco la sua quasi totale centralità. Usciva il disco, l’artista andava in tour per farlo conoscere e la storia finiva lì. Adesso abbiamo il tour che ne anticipa l’uscita, quello che lo celebra, quello che celebra il tour che ha celebrato il disco e così via. Perché è lì che si guadagna ormai, il disco è diventato un gadget. Oggi dobbiamo necessariamente andare a intercettare e monitorare tutta una serie di utilizzazioni che negli anni passati non c’erano o erano marginali: quanti sono i click su YouTube, quanti gli ascolti su Spotify di un pezzo o di un video. C’è una differenza abissale per chi siede da questa parte della scrivania, prima avevi un controllo assoluto sul prodotto fisico. Oggi hai un’intermediazione che è fuori da questo controllo, ma che soprattutto non genera più una corretta e coerente marginalità per chi fa il lavoro creativo: autori, artisti, produttori, interpreti, esecutori e musicisti».

[Vai alla parte 2]