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O piuttosto la fabbrica della musica? Siamo stati in Warner Chappell, il tempio delle edizioni musicali di Warner Music Group, per scoprire come la professionalità non può fare a meno della passione.

Articolo di Valentina Giampieri originariamente pubblicato su Vinyl n.8 – maggio 2019. Continua da Warner Chappell: il tempio della musica (pt. 1/3)

[foto di Massimo.mag – licenza: pubblico dominio]

Come sono cambiati gli autori?

Roberto Razzini: «È cambiato soprattutto il linguaggio: i cantautori che fanno rap e trap non arrivano più da me con la chitarrina, ma usano dei bit e delle top line. Il loro provino deve suonare quasi come un pezzo fatto e finito. Hanno tra le responsabilità anche quella di immaginare il taglio che la canzone avrà. Non siamo di fronte all’autore melodista, ma a un autore arrangiatore e produttore di se stesso, che può anche non saper leggere la musica, ma deve saper usare il computer. Una volta l’editore aveva una serie di pezzi che gli autori consegnavano e cercava di piazzarli sul mercato. Oggi si scrive su misura per l’artista che si vuole raggiungere: l’autore riceve dei brief, viene stimolato con delle indicazioni. Entra da noi la mattina e il pomeriggio stesso a volte ha già in mano una canzone nuova. Mahmood, Achille Lauro, Ultimo, Tedua sono autori multimediali: hanno una maggiore consapevolezza nel mettere insieme le diverse componenti di una canzone. E vale anche per artisti più consolidati come Vasco, Ligabue e la Pausini. La tecnologia ci ha portato qui».

Diego Calvetti: «La figura dell’autore dipende sostanzialmente dal tipo di prodotto che stai confezionando. Se sei Brunori o Fabrizio Moro e scrivi canzoni indie o pop, il tuo strumento è sicuramente un pianoforte o una chitarra. Se sei Ghali, invece, è il computer. In passato il produttore accompagnava l’artista dal discografico e per un paio d’ore si suonavano i pezzi, con la chitarra o al pianoforte. Se melodie e testi piacevano, il discografico decideva di investire in entrambi. Oggi il lavoro del discografico lo facciamo noi: io ascolto chi viene da me, trovo il vestito più adatto alla sua musica e il discografico in un certo senso si trova la pappa pronta. Rispetto a un tempo, oggi forse ci sono un po’ troppi parametri e paletti per chi scrive. C’è meno voglia da parte degli interpreti di sperimentare. Per esempio mi fa imbestialire quando mi dicono: “No, Tizio, quella parola non la dice; questo genere di melodia non è nelle corde di Caio”. Probabilmente anche Guccini, quando ha scritto L’avvelenata, non immaginava di poter dire quello che poi ha detto. C’è la paura di cambiare, ma così si rischia l’appiattimento».

Zibba: «Scrivere è il mio pane quotidiano, da sempre, è il mio modo di esprimere quello che sento. In Warner mi sono però avvicinato ad altri tipi di scrittura. Farlo per gli altri, per quanto mi riguarda, è una responsabilità maggiore. La differenza è sostanziale. È come trovarsi davanti a due porte, una conduce a casa tua, l’altra a casa di una persona di cui sei ospite. Se a casa tua c’è disordine, in fondo, sono affari tuoi. Quando entri in casa d’altri, invece, porti un dono, fai in modo che sia il più buono possibile, ringrazi dell’invito e ti metti al servizio di chi ti ha aperto la porta. Quando lavoro per me stesso è tutto un po’ più istintivo. A volte compongo sul telefono, anche solo tamburellando un tempo su un oggetto qualsiasi, altre volte sono più fortunato e l’ispirazione arriva mentre sono davanti al computer con lo strumento in mano. L’importante è riuscire a buttar giù tutto subito prima che la fiammella dell’ispirazione si consumi. In quello che faccio per me non voglio ci sia alcun tipo di calcolo a priori. Accetto la canzone imperfetta, ma ispirata. Quando scrivo per altri, e a volte mi capita di dover essere decisamente più pop, il lavoro invece diventa un gioco di ruolo con delle regole».

[Continua il 13 luglio con la parte 3]