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Dottor Sting o mister Sumner? Tra impegno sociale e raffinati ritmi pop, l’artista di Newcastle non ha mai smesso di confrontarsi con il suo passato.

[di Andrea Pedrinelli – intervista integrale pubblicata su Vinyl n.9]

«Scrivi per una rivista che si intitola Vinyl? Beh… Non mi stupisce che abbiano voluto crearne una con questo titolo: perché non sono affatto sorpreso dalla rinascita del vinile».

Inizia così, tra una stretta di mano e il “clic” del registratore, l’incontro con Gordon Sumner in arte Sting, uno dei giganti del rock europeo sin da quando sfuggì ai sobborghi della natia Newcastle per fondare gli storici Police.
Dal 1976 sino a oggi, anche se il debutto discografico dei Police avvenne due anni dopo con il lancio di Roxanne negli States, Sting ha venduto più di cento milioni di dischi tra il gruppo e l’attività solista cominciata nel 1985 con lo storico The Dream of the Blue Turtles; e in oltre quarant’anni si è aggiudicato diciassette Grammy, tre Brit Awards e un Golden Globe, venendo candidato quattro volte all’Oscar per la miglior canzone.

Fra le perle della carriera di Sting, oltre ai cinque album con la band, The Soul Cages del 1991, Brand New Day del 1999 e nel nuovo millennio il colto Songs From the Labyrinth, il coraggioso The Last Ship e l’ultimo, eccellente progetto d’autore datato tre anni or sono: 57th & 9th.

A distanza di un anno dalla trionfale collaborazione in disco e tour con Shaggy, Sting ora torna a questo suo passato, mirando però a proiettarlo verso il futuro: rileggendo con l’appena uscito album My Songs quindici hit che vanno da Message in a Bottle o Every Breath You Take made in Police sino all’assorto capolavoro Shape of My Heart e alle denunce profetiche di If I Ever Lose My Faith in You gioiellini del disco del ’93 Ten Summoner’s Tales.
Senza dimenticare che nella Deluxe Edition dell’opera, sia in Cd che su vinile, alla scaletta si aggiungono versioni live dall’Olympia di Parigi di altri cinque successi e un’Extended Version di Desert Rose remixata con molto gusto.

L’incontro con Sting avviene a Milano, in una giornata di promozione dentro a un fitto programma d’incontri con cui il cantautore promuove sia My Songs che il suo tour, che toccherà anche il nostro Paese il 29 e il 30 luglio (al Lucca Summer Festival e a Padova presso l’Arena Live@Gran Teatro Geox).
Malgrado il susseguirsi senza posa degli impegni, però, l’icona del rock classe ’51 pare in pieno relax e, vestito in sobria eleganza su fisico asciutto da trentenne, si racconta sorridente con grande disponibilità passando da disco e tour al senso del far canzoni; senza dimenticarsi dell’impegno sociale, parte integrante della sua vita e della sua musica sin dai tempi delle battaglie per l’Amazzonia o a favore di Amnesty International.

La rinascita del vinile non ti sorprende? Partiamo da qui, allora. Che cosa significa per te il disco in vinile? Nel 1994, fosti il primo a vendere un album intero tramite Internet…
Un paradosso ironico: proprio in quel disco parlavo di realtà che vedevo avvicinarsi, fra cui quella di un mercato virtuale… In realtà io non so rinunciare al vinile: il suo suono è qualcosa di prodigioso, ascoltare vinili per me è come assistere a una funzione sacra. E sono contento di avere la conferma che nel tempo anche a tanta altra gente, evidentemente, è mancato quel modo tanto più profondo di suonare i dischi.

Nella canzone cui accennavi sopra, If I Ever Lose My Faith In You, parlavi di tante cose che nei primi anni Novanta ti spaventavano: quali denunce di quel brano si sono rivelate a oggi più tristemente profetiche?
Quel pezzo era molto complesso, e in realtà volevo fotografare più che giudicare. Ma vi cantavo in effetti di inquinamento, o di tecnologia che domina l’uomo… Oggi ciò che penso abbia cambiato il mondo in peggio è la malizia della nuova politica, che tramite i social ha mutato il modo con cui le informazioni arrivano alle persone. Tanto che non siamo più in grado di capire il vero, nella massa di notizie che ci sommerge.

Perché hai riletto questo e altri tuoi brani?
Per caso. Lavoravo a una base nuova su cui cantare Brand New Day durante un evento a Times Square, come mi era stato chiesto, e ho voluto rendere quel pezzo più contemporaneo e incisivo: mi sono divertito tanto che ho sottoposto al processo anche altre canzoni. Credo di averle migliorate, alla fine, perché ora ho nuove consapevolezze produttive e una voce più interessante di qualche anno fa. E poi le canzoni sono organismi viventi con cui anche l’autore sviluppa una relazione giorno per giorno. Non sono reliquie.

[foto: Raph_PH – licenza: Creative Commons Attribution 2.0 Generic / continua con la seconda parte domenica 18]