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Nella seconda metà degli anni Sessanta, il podio dei pesi massimi del rock’n’roll è occupato da Beatles e Rolling Stones; eppure la storia sembra avere offuscato la figura dei campioni terzi classificati, quelli che esibiscono l’onorevolissima medaglia di bronzo: gli Small Faces.

di Andrea Valentini

Questa band, nell’arco di quattro soli anni di attività (1965-1969), si è scavata a colpi di riff un posto nella roccia dell’Olimpo, divenendo una vera e propria icona prima per la cultura mod, poi per quella psichedelica e, in seguito, per il Brit-pop. I nomi dei protagonisti di questo film ambientato a Londra sono Steve Marriott (1947-1991), Kenney Jones (classe 1948), Ronnie Lane (1946-1997) e Ian McLagan (1945-2014)… e ora, finiti i titoli di testa, andiamo a raccontare la loro storia.

Le origini

Tutto comincia nei tardi anni Cinquanta, quando un giovanissimo Steve Marriott entra nel mondo del teatro e del musical, scoprendo di avere una voce molto personale: questo lo convince a provarci con la musica, unendosi alla sua prima band – i Moonlights (che copiavano spudoratamente gli Shadows). Nel 1963, con i Moonlights ormai sciolti, Marriott si aggiudica un contratto solista con la Decca e debutta con un singolo che fallisce miseramente. È così che si ributta nella carriera da attore, partecipando a una serie di film minori che rapidamente minano la sua convinzione di volere davvero continuare su quella strada; anzi sceglie di mollare tutto e si trova un lavoro in un negozio di strumenti, il J60 Music Bar al 445 di High Street… un luogo fondamentale, che farà da scenario alla nascita degli Small Faces. Qui Marriott conosce Ronnie Lane, un giovane bassista che suona in una formazione nota come Pioneers e destinata a durare ancora per poco. L’incontro tra i due, infatti, porta a un sodalizio che non può che culminare nella creazione di una band insieme. Al loro fianco ci sono l’ex Pioneers Kenney Jones (batteria) e alle tastiere un giovane mod all’anagrafe registrato come Jimmy Langwith, ma che come nome di battaglia usa l’alias Jimmy Winston.

Facce da mod

Provano al pub Ruskin Arms di Manor Park, gestito dai genitori di Winston, e scelgono il nome Small Faces combinando due elementi del loro modo di essere: tutti i membri o quasi, infatti, sono di statura piuttosto bassa (quindi “small”) e si considerano dei tipi speciali… ossia delle “faces”. “Face” è infatti il termine gergale con cui i giovani del giro mod identificano i più “cool”, i personaggi che si distinguono dalla massa e che in qualche modo sono i veri aghi della bilancia per mode e tendenze. “La parola ‘face’ indicava un mod di prima classe, una faccia conosciuta e rispettata! Il nostro nome lo suggerì una ragazza di Chelsea che si chiamava Annabelle”, ricorda Marriott.

Con un repertorio a base di cover r&b/soul (James Brown, Smokey Robinson, Ben E. King…) e un paio di brani originali (“Come On Children” ed “E Too D”), presto si guadagnano un seguito fedele tra i mod londinesi, complice un’attività live martellante. In più i ragazzi mod, quelli di strada, si sentono molto affini agli Small Faces perché sono come loro e hanno il medesimo background… un dettaglio che li rende molto simpatici, considerando che in quel momento il complesso mod più famoso è quello degli Who, che non sono davvero dei mod, ma piuttosto un gruppo brillante che sfrutta una moda per ragioni di mercato. Insomma, incredibilmente gli Who scrivono l’inno mod per eccellenza (“My Generation”), ma sono gli Small Faces a praticare davvero la “mod way of life” e a essere in sintonia coi ragazzi che comprano i dischi. Questo non sfugge certo a Kit Lambert, il manager di Townshend, Daltrey, Moon ed Entwistle, che tenta di metterli sotto contratto, ma invano: la band preferisce, infatti, legarsi a Don Arden, leggendario per le sue tecniche e metodi da gangster nel condurre le trattative.

Arriva Don Arden

Marriott ricorda così il primo incontro con l’impresario: “Il venerdì sera precedente eravamo rimasti coinvolti in una rissa. Mi ero beccato una bottigliata in faccia e Ronnie si era preso una sbarra di ferro sulle palle. Ci siamo presentati all’audizione con i punti ancora freschi. Probabilmente avevamo un aspetto terribile, ma a Don è piaciuto ciò che ha sentito”.

L’accordo con Arden sembra stellare ai nostri giovanotti sprovveduti: 20 sterline a testa a settimana di paga, credito nelle migliori boutique di moda di Carnaby Street e un contratto discografico con la Decca. In pratica il Paese di Bengodi per i quattro, che stimano, a posteriori, di avere speso circa 12.000 sterline solo in vestiti nel 1966… quello che non sanno, però, mentre fanno acquisti selvaggi a credito, è che tutto questo denaro viene detratto dalle loro royalty. “Eravamo come vecchiette a una svendita. La metà di quello che abbiamo comprato non lo abbiamo indossato nemmeno una volta”, commenta Ronnie Lane.

[Continua con la parte 2 – Foto: Cashbox Magazine – dominio pubblico]