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Nella seconda metà degli anni Sessanta, il podio dei pesi massimi del rock’n’roll è occupato da Beatles e Rolling Stones; eppure la storia sembra avere offuscato la figura dei campioni terzi classificati, quelli che esibiscono l’onorevolissima medaglia di bronzo: gli Small Faces.

[di Andrea Valentini – continua dalla parte 1]

The Decca years

Ovviamente Arden vuole dagli Small Faces dischi di successo e hit che incassino sterline sonanti. È così che li manda direttamente in studio a incidere quello che sarebbe divenuto il loro singolo di debutto: l’accoppiata “What’Cha Gonna Do About It” (scritta con l’aiuto di Ian Samwell degli Shadows, già autore di quello che è considerato il primo disco rock’n’roll inglese, “Move It” di Cliff Richard del 1958) seguita da una cover di “What’s A Matter Baby”, eseguita da Timi Yuro nel 1962 per la prima volta. Il singolo arriva al quattordicesimo posto delle classifiche e Arden ne chiede immediatamente un altro, così Marriott e Lane scrivono “I’ve Got Mine”, che esce a novembre del 1965 con “It’s Too Late” come lato B; il pezzo viene accolto in modo entusiastico dalla stampa ed è anche incluso in un bizzarro film di genere pop/poliziesco intitolato “Dateline Diamonds”, ma fallisce clamorosamente a livello di vendite.

Nonostante tutto la fama degli Small Faces è in ascesa vertiginosa, anche se un grosso problema è alle porte: il resto della band non va d’accordo col tastierista Jimmy Winston. Il pretesto per allontanarlo è un’esibizione nell’ambito dello show televisivo Thank You Lucky Star, durante cui Winston cerca di rubare la scena a Marriott; questo atteggiamento non viene tollerato e, unito al fatto che il tastierista non è affatto di taglia “small” come gli altri (rovinando così l’impatto visivo del gruppo), porta a una cortese ma ferma richiesta di dimissioni, che arrivano immediatamente e senza strascichi o litigi.

Il sostituto viene scovato quasi per caso grazie a un mensile che si chiama “Beat Instrumental”,  in cui compare un’intervista a un tale Ian “Mac” McLagan, tastierista dei Boz and the Boz People (la band pre-Bad Company di Boz Burrell); a Marriott e soci questo tizio piace molto, a livello di look, e subito domandano ad Arden di contattarlo. Il caso vuole che Mac abbia appena mollato il suo gruppo e alla telefonata della segreteria di Arden risponde entusiasta, anche se non sa ancora di cosa si tratti: pensa vogliano proporgli dei lavori da turnista. Quando, invece, incontra la band al completo scatta una specie di scintilla (anche se McLagan non è un mod) e i quattro da subito sembrano amici di vecchia data, tanto che Mac ricorda di quel pomeriggio: “È stato come incontrare i miei fratelli!”. La sera stessa il nuovo arrivato è sul palco del Lyceum Ballroom, dove la band esegue in playback un pezzo per uno spettacolo sponsorizzato da Radio Lussemburgo. Ma il giorno dopo arriva il difficile: gli Small Faces hanno un concerto a Swindon e Mac deve imparare tutta la loro scaletta in poche ore. E ce la fa. È bizzarro, però, come contratti sulla sua retribuzione riuscendo… a farsela decurtare, come ricorda Marriott: “All’epoca prendevamo 20 sterline a testa a settimana. Quando Mac fu preso gli vennero proposte 30 sterline a settimana per sei settimane e lui piantò un casino perché diceva che non voleva fare il turnista salariato e voleva prendere lo stesso degli altri. E così la sua paga scese a 20 sterline settimanali e lui non ci credeva. […] Ci rimase molto male”.

Nuova formazione

Con la nuova line-up il gruppo ingrana la quarta; costantemente on the road, con un’incredibile media di 10 concerti a settimana, costruisce un seguito solidissimo. E giunge il momento di un terzo singolo, per cui viene selezionato un brano intitolato “Sha La La La Lee”, scritto per la band da Kenny Lynch e Mort Shuman, assoldati da Arden perché componessero una manciata di brani pop, potenziali hit. Il disco esce il 28 gennaio 1966 ed è un successo istantaneo, arriva al numero tre (anche se serpeggiano voci molto consistenti sul fatto che ci sia stato un investimento di 12.000 sterline da parte di Arden, per drogare i risultati dei rilevamenti sulle vendite) e attira un folto pubblico di giovanissimi. A questo punto gli Small Faces sono quasi idoli pop spezzacuori, che affascinano e fanno innamorare i fratelli e le sorelle minori dei fan di Beatles e Rolling Stones.

Steve Marriott: “Diventammo popstar senza averlo mai voluto. Non era roba che ti interessava se avevi un po’ di integrità e magari fumavi anche hashish. Vedere tutte quelle ragazzine che si facevano male e venivano schiacciate nella bolgia, senza che si sentisse una sola nota di quello che facevamo, ci faceva solo venire voglia di andare a casa”. E Lane rincara: “La band aveva smesso di evolversi musicalmente. Non era roba che potevi prendere sul serio. […] Non siamo riusciti a sentici dal vivo per due anni, letteralmente. Non sentivamo una singola nota di quello che suonavamo. Tutto si riduceva al sipario che si alzava, noi sculettavamo per mezz’ora sul palco e là sotto tutti urlavano”.

L’11 maggio del 1966, meno di una settimana dopo il quarto singolo “Hey girl”, esce l’agognato album di debutto, semplicemente intitolato “Small Faces”. “Hey Girl” è un tentativo di Marriott e Lane di andare incontro alle esigenze pop di Arden: lui vuole hit, gli Small Faces vogliono suonare r&b… e il risultato è un brano ordinario, ma funzionale, visto che raggiunge il numero 10 delle classifiche. La band non è soddisfatta del compromesso, come Lane ricorda, ma si adegua: “All’epoca non ci facemmo troppo caso. Eravamo felici di avere qualche soldo in tasca perché eravamo stati in giro quasi per un anno, vivendo nel retro di un vecchio furgone della polizia, suonando quasi gratis e sopravvivendo a suon di salsicce. […] Ma poi ci fottemmo con roba tipo ‘Hey Girl!’. Non ci volle molto prima che il marcio iniziasse a prendere il sopravvento. Eravamo giovani e molto impressionabili e ci facemmo manipolare. Però eravamo felici”.

L’album, accolto come una delle uscite più importanti dell’anno dalla stampa specializzata, invece è un bizzarro ibrido tra il soul/r&b dei Booker T & The MGs e le sonorità degli Who, con un pizzico di Motown per buona pesa; il pubblico gradisce e il disco arriva al numero tre. Un bel successo, che però alla band comporta benefici solo dal punto di vista della notorietà, come spiega Ian McLagan: “Non ci abbiamo fatto un centesimo. È stato un accordo tra la Contemporary Records – un marchio di Arden – e la Decca. La Decca ha pagato la Contemporary per i nastri e il denaro è rimasto lì, non è mai arrivato a noi”.

Sull’onda del successo, all’inizio di agosto esce un nuovo singolo, “All Or Nothing”, che scalza dal vertice della classifica i Beatles (che erano al numero uno con “Yellow Submarine”) e consacra gli Small Faces in modo inequivocabile, seppur effimero, alla stregua dei big contemporanei. E a questo punto iniziano i problemi seri…

[Continua con la parte 3]