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All’arrivo degli anni ’80 David Bowie è già un veterano. Il fragile e misterioso Ziggy Stardust si è tramutato in un genio, in un profeta assoluto del trasformismo rock. Generatore e anticipatore di musiche che altri sentiranno solo molto dopo. Eppure qualcosa gli sfugge. Ancora per poco

di John Earls – Stefano Solventi
cover story integrale pubblicata su Vinyl n.7 (marzo 2019)
foto: Roger Woolman – licenza CC  Attribution 3.0 Unported

Nel novembre del 1964 un curioso ragazzo si presenta come ospite del programma BBC Tonight. Ha diciassette anni, il caschetto lungo e il look azzimato. Si chiama ancora David Jones e sostiene di essere il fondatore di una fantomatica Società per la Prevenzione delle Crudeltà contro i Capelloni.

Il futuro David Bowie riesce in questo modo a guadagnarsi un quarto d’ora di fama sulla BBC grazie a un’intuizione divertente, sì, ma anche strana, perturbante. È un’epoca, del resto, in cui le vie del successo non sono ancora lastricate di solo conformismo e pianificazione, anzi. Le singolarità dirompenti, le rotture, l’inaudito sono veri e propri “ticket to ride” per aspiranti rockstar. Non a caso il primo passo di Bowie come solista è un album omonimo molto peculiare, nel quale miscela pop, R&B e music hall prendendo a modello il repertorio dell’attore e showman Anthony Newley.

Malauguratamente, il disco esce il 1˚ giugno del 1967, pochi giorni dopo quel Sgt. Pepper’s destinato a oscurare tutto il resto con la sua stazza vertiginosa. I due anni successivi Bowie li spende a rielaborare se stesso. Per poi sfornare un ulteriore album omonimo sintonizzato con le folk-ballad di Dylan e le atmosfere freak e proto-prog dei Tyrannosaurus Rex.

Soprattutto, è abile a cogliere l’eccitazione collettiva per l’imminente allunaggio di cui sostanzia lo stupefacente singolo Space Oddity. Si tratta di un autentico colpo di genio non solo per la sua furbizia – che induce Tony Visconti a rifiutarsi di produrlo – ma anche per come sa rielaborare in chiave pop inquietudini e angosce kubrickiane (tra le fonti d’ispirazione c’è ovviamente 2001: Odissea nello spazio). Di nuovo, all’elemento accattivante si accompagna il quid perturbante.

E’ lungo questa falsariga che prosegue l’ascesa di Bowie al successo, prima con The Man Who Sold The World, le cui sonorità hard con preveggenze glam e prog contano meno della sconcertante androginia ostentata in copertina, quindi con lo straordinario zibaldone pop-rock del capolavoro Hunky Dory.

A quel punto Bowie è già una proiezione sfaccettata di sé, una trasfigurazione che mette il personaggio in una dimensione ontologicamente superiore rispetto all’uomo-artista. Ziggy Stardust è in questo senso un approdo, il punto di raccolta di ossessioni, visioni e prospettive. Un intero pantheon rock collassa in Ziggy dando vita a un disco che porta la temperatura di ebollizione del glam a una gradazione inaudita.

Le declinazioni “americane” di Ziggy elaborate in Aladdin Sane e le fatamorgane soul di Diamond Dogs esauriscono quella fase, culminata con il celebre “suicidio” del personaggio alieno sul palco dell’Hammersmith Odeon, il 3 luglio 1973.

[Continua con la parte 2 della cover story]