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O piuttosto la fabbrica della musica? Siamo stati in Warner Chappell, il tempio delle edizioni musicali di Warner Music Group, per scoprire come la professionalità non può fare a meno della passione.

Articolo di Valentina Giampieri originariamente pubblicato su Vinyl n.8 – maggio 2019
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Warner Chappell: il tempio della musica (pt. 2/3)

Come è cambiata la musica?

Roberto Razzini: «La velocità con cui noi oggi fruiamo delle canzoni, tramite lo streaming per esempio, ha sicuramente un impatto diverso sulla musica: non le dà il tempo di consolidarsi e mettere radici. C’è molta più velocità anche nella produzione, perché la tecnologia ha accorciato il divario. Fino agli anni ’90, se volevi realizzare un prodotto che aveva determinate caratteristiche oggettive di qualità, dovevi andare in uno studio. Oggi, qui in Warner, abbiamo una stanza con alcuni strumenti e il computer, è nata come sala per fare i provini, ma se ci entra qualcuno che sa “smanettare” bene, ne escono prodotti che possono tranquillamente passare direttamente in radio. In quegli anni ci volevano anche sei, sette mesi per realizzare un disco. Oggi, magari, per un disco di Laura Pausini impieghi lo stesso tempo, ma perché fai registrare gli archi a Londra, le batterie qui, le chitarre a Los Angeles e poi ti serve tempo per assemblare il tutto. Oggi hai l’opportunità di fare un disco decoroso e di successo ovunque, anche in un mese».

Diego Calvetti: «Una volta Gianni Morandi mi ha raccontato di quando, negli anni ’60, registrava le prime canzoni e gli arrangiamenti glieli faceva Ennio Morricone. Arrivavano in questa sala enorme a Roma con sessanta elementi d’orchestra. Morricone consegnava le partiture a ciascun musicista e provavano il pezzo. Se a Franco Migliacci (il produttore, Ndr) il risultato non piaceva, il tutto slittava di una settimana, perché Morricone doveva avere il tempo di riscriverle. Con il computer si ha già un’idea di quello che sarà il risultato finale, in passato potevi soltanto immaginartelo. Era un lavoro molto più lento e complesso. Un tempo, però, si investiva moltissimo nella produzione, oggi in Italia si spende molto meno. Eccetto rari casi. Zucchero, per esempio, è tra quelli che utilizzano interamente i budget che gli danno. Anzi, investe anche soldi suoi! E si tratta di dischi che si realizzano in due anni e per buona parte in America. Però è oggettivo: al di là del gusto personale, la sua musica suona meglio di altre. C’è una cura maggiore. La canzone è come un film: non basta avere una buona sceneggiatura, quello che crea la magia è la fotografia, il modo in cui lo confezioni. Spesso il traino di un disco è una robetta che funziona, la hit del momento. Poi, però, nel lungo periodo, di queste non ne resta una».

Zibba: «Ora si hanno più mezzi e molto più veloci. L’importante, però, è sapere che non hanno lo stesso effetto. è possibile produrre una canzone, mixarla, masterizzarla, addirittura scriverla nello stesso giorno, e ottenere un prodotto radiofonico perfetto, ma è possibile  anche decidere di averne più cura: si tratta di una scelta personale. E come quando vuoi sentire un amico, ma gli mandi un messaggio su Whatsapp… quel messaggino è come la canzone fatta in un giorno. Va bene lo stesso, assolve alla sua funzione, però telefonare oppure sedersi in un bar a chiacchierare è diverso. A volte hai bisogno di quello, altre volte del messaggio e basta. Per esempio, il mio disco Le cose è stato lunghissimo, mentre per il singolo Cinghiali mi sono affidato più alla mia velocità di produzione. Poi, però, mi sono dato anche il tempo necessario per rifinirlo».

Analogico Vs Digitale

Diego Calvetti: «Il discorso della bassa qualità dello streaming, molto spesso, è una scusa. La qualità di Spotify, con quel tipo di compressione, per l’ascoltatore medio è altissima. Il problema non è Spotify, il problema, e ne faccio sempre una questione nostrana, è la realizzazione del disco. Se prendi un disco di Adele, che tu lo senta dal Cd su un impianto da trentamila euro o in streaming con le cuffiette, suona benissimo comunque. Anche quando si tratta di vinile, occorre fare una distinzione: se si tratta di un disco registrato negli anni ’70 allora c’è quel calore del lavoro completamente in analogico, quella distorsione armonica dovuta alla saturazione del nastro o delle valvole. Un vinile fatto oggi, passando per il digitale, non avrà la stessa magia».

Roberto Razzini: «L’evoluzione del supporto in qualche modo ha cambiato la quantità di pezzi che escono. Quando c’era soltanto il vinile, avevi un vincolo non da poco: lo spazio. Lo standard erano gli otto pezzi, quattro sul lato A e quattro sul lato B. Per fare sedici pezzi dovevi fare un doppio, che però ti costava due volte tanto. Oggi se ti limiti agli otto pezzi non è nemmeno un album, è un Ep. Sotto gli otto pezzi neanche ti mettono in classifica, devi scriverne di più. Per lo streaming il discorso è diverso, e anche qui tutto dipende dal tipo di artista. Se la tua vocazione è quella del vinile o del live, concentri il tuo lavoro per quel tipo di resa. Se sei un artista super teen e il tuo mercato è dunque quello di YouTube o dello streaming, magari ti fermi un gradino prima, perché tanto sai che è già sufficiente così. Non c’è una regola. È bellissimo che il vinile e Spotify convivano, ma non ha senso tornare al “cut and paste” fatto con le forbici».

Zibba: «Oggi l’errore più grande è cercare di mixare i brani in modo che la musica suoni bene anche dal supporto peggiore. Se decido di ascoltare musica dal cellulare è un problema mio, ma il prodotto deve comunque suonare bene anche sui supporti “giusti”. Il ritorno al vinile influisce non tanto sul modo di scrivere, quanto sull’esperienza di ascolto. Se prendo in mano il vinile e lo appoggio sul piatto significa che ho più tempo da dedicare a quell’ascolto. Tuttavia, ringrazio Dio che oggi esista anche altro: quando ho poco tempo e voglio ascoltare cose nuove, posso usare Spotify in modo rapido e posso skippare».

Roberto Razzini: «Proviamo ad allontanarci un attimo da quelli che sono gli strumenti che abbiamo a disposizione oggi per ascoltare musica. Il linguaggio cambia perché cambiano i tempi, cambia la società. E la musica, bella o brutta che sia, è da sempre un’espressione artistica e culturale strettamente connessa alla quotidianità in cui viviamo. I cantautori degli anni ’70 raccontavano quel mondo – e forse oggi sembrano per certi versi anacronistici – mentre i cantautori di oggi, semplicemente, si esprimono in altri modi. A me, però, piace pensare che i principi fondanti nella struttura di una buona canzone, restino uguali: deve essere orecchiabile, avere un gancio e dei contenuti, deve esprimere qualità, riuscire a colpire l’attenzione, ma soprattutto restare. Perché poi alla fine, oggi come ieri, è la canzone che vince».