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Nel disco omonimo del 1969 le tensioni, le ossessioni e gli insuccessi dei Velvet Underground danno vita a un nuovo rock introspettivo

di Federico Pucci
articolo integrale pubblicato su Vinyl n.6 (febbraio 2019)

La genesi dei Velvet Underground

Erroneamente ritenuti una creazione di Andy Warhol, che li lanciò a supporto dello show multimediale Exploding Plastic Inevitable e poi con l’album The Velvet Underground & Nico, i Velvet Underground hanno una genesi che parte da lontano. Da Lewis Allan Reed, e ha a che fare con memorie più o meno fabbricate di abusi adolescenziali, studi letterari a Syracuse, passioni proibite, fascinazioni per l’estremo e il perverso. E quindi l’apporto assolutamente fuori luogo e rivoluzionario del musicista sperimentale gallese John Cale.

Il clamoroso flop dei primi due dischi e alcuni incidenti della sorte, però, riportano Reed a casa base con il disco che 50 anni fa, anziché disperdere l’eredità del gruppo, ne ha creata una nuova. Eppure le condizioni in cui nasce The Velvet Underground sono tutt’altro che ideali. A gennaio del 1968 White Light/White Heat, a buon diritto considerato capostipite di punk e noise, è accolto nuovamente con freddezza o ribrezzo.

Quel bagaglio smarrito che segnò la storia di un disco

Questa reazione convince Reed a smussare gli angoli. A febbraio e a maggio, lui, il chitarrista Sterling Morrison, la batterista Maureen Tucker e John Cale vanno in studio per registrare qualcosa che spostasse la band in una direzione più leggera, radiofonica.

Tuttavia le melense Temptation Inside Your Heart e Hey Mr. Rain restano in archivio. Intanto lo stress aumenta in tour, finché a giugno l’attentato a Warhol scuote Reed, che si convince a licenziare un disilluso Cale. O meglio a mandare Morrison a farlo.

Tra novembre e dicembre, quindi, si registra il terzo album. Con il bassista Doug Yule, che il frontman e gran manipolatore intende plasmare, il gruppo si reca agli studi TTG di Hollywood con molti pezzi già pronti.
Quello che non si aspettano, una volta atterrati a Los Angeles, è scoprire di aver smarrito i bagagli contenenti effetti e distorsori, come ricorda Morrison. Un evento che condizionerà il suono dei nuovi pezzi, molto meno abrasivo anche per l’assenza della viola elettrica di Cale.

Cambiano i suoni…

Tolte le ondate di frastuono e i racconti di prostituzione, il nucleo più profondo della musica e della poesia dei Velvet Underground è però ancora lì, sotto quel suono apparentemente ingentilito.

Ci sono i personaggi della Factory di Warhol, come la transessuale Candy Darling protagonista di Candy Says, incarnata con l’empatia di un testo che parla di disforia di genere con una sensibilità ancora oggi rara. Ci sono gli strascichi sentimentali universitari di Reed, già raccontati in The Gift o I’ll Be Your Mirror, ma con la maturità amara di Pale Blue Eyes – il pezzo testimonia il momento in cui il musicista aveva riallacciato una relazione sentimentale con la vecchia fidanzata Shelley Albin, ormai sposata a un altro uomo (sebbene gli occhi di Shelley fossero color nocciola!).

Anche l’altro amante di Reed dell’epoca, il manager, light designer, tuttofare ed ex compagno di Warhol, Billy Name, entra nella storia di questo album. Non soltanto perché è sua la foto che immortala il quartetto in copertina, ma perché viene citato nel bizzarro intermezzo That’s the Story of My Life.

…ma non la poetica

Insomma, nonostante nuovi temi e nuove profondità, nonostante le limitazioni tecniche e di personale, il disco si presenta intriso come non mai di poetica VU. Lo dimostrano le perversioni sessuali di Some Kinda Love, dove si possono cogliere allusioni a Bulgakov, T.S. Eliot. Ma anche ai film noir della RKO, oltre che al “romanzo francese indecente”, forse lo stesso che aveva fornito titolo e spunto a Venus In Furs.

Ci sono poi gli esperimenti in stereo con le voci dei quattro. O, ancora, gli azzardi linguistici alla Burroughs di The Murder Mystery, seguito ideale di The Gift e Lady Godiva’s Operation ma ancora più astratta. Infine, le dissonanze di What Goes Ondove Reed sovrappone tre assolo di chitarra. 

La scrittura di Reed

E soprattutto, nelle vene di tutto il disco c’è quello che critici come Robert Palmer hanno ritenuto l’eredità più evidente e precoce della scrittura di Reed: i giri di due accordi, secondo la cosiddetta cadenza plagale, tesi, ossessivi, eterei. Questo modo di scrivere, combinato alla produzione minimale e alle caratteristiche accordature ribassate, genera una nebbia narcotica, di nuova fattura ma decisamente riconoscibile. Sotto questa nebbia, comunque, si trova Lou Reed. Il frontman “dittatore” che aveva spodestato Cale.

Dell’amore e di altri demoni

Le dieci tracce si concentrano sull’amore carnale, materialistico, idealizzato o spirituale. L’amore che viene scambiato per una visione ma che è comunque amore (Some Kinda Love) o che provoca sbalzi d’umore da montagne russe (What Goes On e Pale Blue Eyes). Significativa la mini-storia interna al disco, delineata dai brani Jesus, Beginning To See The Light e I’m Set Free: una processione di opposti che culmina con la libertà di ingabbiarsi in un’illusione di propria creazione.

Il missaggio “del ripostiglio”

L’illusione più grande, però, era quella dei Velvet Underground stessi: Cale dirà che l’ex compagno era ormai proiettato verso la carriera solista. E certamente un indizio di egomania è il missaggio che Reed realizza di nascosto dagli altri tre. Morrison lo avrebbe chiamato il “closet mix”, il missaggio “del ripostiglio”, dove sembrava fosse stato rinchiuso il resto della band mentre in primo piano si ascoltava solo la voce del frontman. Due versioni circolarono parallelamente, quest’ultima negli USA e una curata dal tecnico del suono Val Valentin in Regno Unito e Canada. Eppure, Reed fa due importanti passi indietro. Forse per scelta artistica, forse per affaticamento, cede a Yule e Tucker il ruolo di voce solista, quello spazio dato con riluttanza due anni prima a Nico. Succede rispettivamente in Candy Says e After Hours, l’alfa e l’omega dell’album.

Un insuccesso rivoluzionario

Sono queste sottigliezze, oltre al suono morbido e spettrale, che hanno fatto di The Velvet Underground il terzo consecutivo lavoro rivoluzionario del gruppo, e il terzo consecutivo insuccesso (arriverà al 197° posto della classifica di Billboard, ma solo nel 1985).

Probabilmente a causa del disinteresse della nuova etichetta MGM, che secondo alcuni resoconti avrebbe addirittura boicottato la distribuzione, il disco riceve la solita accoglienza fredda delle radio. Prima della fine dell’anno la band proverà a incidere un nuovo album. La MGM lo terrà in un cassetto per anni finché il successo tardivo del gruppo e di Reed non lo farà riemergere nelle compilation di rarità VU e Another View del 1985 e 1986.

Vinyl info – per saperne di più:

The Velvet Underground
MGM Records