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Quest’anno si celebra il quarantesimo anniversario di un disco epocale ed eccitante, uno dei migliori mai incisi su un supporto in vinile: Unknown Pleasures dei Joy Division. Ne parliamo con Peter Hook, il bassista del gruppo, in una lunga chiacchierata, tra ricordi, emozioni e qualche rimpianto.

[di Jonathan Wright – articolo integrale pubblicato su Vinyl n.10 / continua da Joy Division: inno alla gioia – pt. 2/3]

Into The World

Unknown Pleasures viene pubblicato il 15 giugno 1979. La copertina ritrae l’immagine delle onde radio emesse dalla pulsar CP 1919, che Sumner ha trovato nella Cambridge Encyclopaedia of Astronomy.
Il designer Peter Saville usa l’immagine al negativo, da nera su fondo bianco a bianca su fondo nero, e le prime copie sono stampate su cartoncino ruvido. Musica speciale, grafica speciale. Qualcosa di nuovo.

Più prosaicamente la Factory stampa 10.000 copie, che Hook e Gretton vanno personalmente a ritirare dallo stampatore londinese e portano a Manchester.
I dischi devono essere trascinati su per tre rampe di scale fino all’appartamento del direttore della Factory, Alan Erasmus, mentre – almeno stando a quanto afferma Hook nella sua autobiografia Unknown Pleasures: Inside Joy Division – era in compagnia dell’attrice Margie Clarke.

Il 20 luglio 1979 i Joy Division fanno la loro seconda apparizione televisiva, eseguendo She’s Lost Control a What’s On.
Più tardi, sempre a luglio, registrano Transmission, che uscirà in ottobre. A settembre la band partecipa al Futurama Festival di Leeds, un evento cui prendono parte band post-punk come PiL, OMD, Echo & The Bunnymen e The Fall.
Per la fine dell’anno i Joy Division registrano anche Dead Souls, Atmosphere e una John Peel session che include Love Will Tear Us Apart e tracce da Closer (Hook considera questo disco uno dei suoi preferiti in assoluto: «È quasi l’opposto di Unknown Pleasures e tuttavia stanno bene vicini, perché mostrano un gruppo che sta crescendo, che sta affrontando un mondo difficile»), canzoni che rivelano come si stiano allontanando sempre più dalle loro radici punk.

Arriva quindi il tour nell’ottobre del 1979 con i Buzzcocks, maestri che in realtà gli allievi Joy Division stanno già per superare. Ma nonostante i progressi evidenti, la band cammina su un filo.
«I Buzzcocks suonavano davanti a grandi platee e potevano godere di un minimo di agi, non dovevano cambiarsi nei cessi come noi», dice Hook. «Ricordo che ero furioso, eravamo pagati una sterlina e mezzo al giorno e i Buzzcocks avevano perfino assunto un buttafuori per tenerci lontani dal loro camerino, perché eravamo così affamati che ci saremmo mangiati tutto, tavoli e tovaglie compresi».

Oggi Hook ride al ricordare questo aneddoto, così come gli capita spesso durante la nostra chiacchierata, un segno della pace ritrovata con se stesso dopo anni di lotta con alcol e droghe.
Tuttavia, il rammarico, ogni tanto, fa capolino.

Il 23 gennaio 1979 a Curtis viene diagnosticata l’epilessia e, anche se il successo dei Joy Division continua a crescere, cresce anche la sensazione che, in fondo, Curtis non debba suonare in una band.
I concerti vengono eseguiti con scarsa illuminazione, proprio per non scatenare l’epilessia del cantante, i cui attacchi, tuttavia, interrompono ugualmente a volte le esibizioni.

«Voleva che andassimo alla grande e che ci divertissimo molto più di quanto lo desiderasse per se stesso», dice Hook. «Non era per niente egoista e questo ne ha causato la rovina, perché questa sua mancanza di egoismo, di interesse per il proprio benessere, questo preoccuparsi costantemente per la felicità altrui, alla fine lo hanno condannato. Se non ti curi di te stesso, non potrai prenderti cura degli altri».

Però sono giovani. «Giovanissimi, stupidi, ignoranti, soprattutto nei confronti di cose come l’epilessia», ammette Hook. «È stato tremendo, ma insieme a noi c’erano anche molte persone adulte. Riconosciamo le nostre colpe, in fondo. Io, sotto molti aspetti, mi sento ancora oggi colpevole per il suo suicidio, ma non posso dimenticare che c’era un mucchio di gente attorno a Ian, dottori, specialisti, genitori, un sacco di persone… e neanche loro sono stati in grado di aiutarlo. È una questione di responsabilità, no?».

Il tempo scorre velocemente, troppo. Ancora pochi mesi e Ian, scosso da una vita personale e professionale in pieno tormento, si suicida. La musica, però, non muore, anzi resiste.
«Davvero, avevamo tutto, e tuttavia non avevamo niente», conclude Hook. «Avevamo il talento, le canzoni, l’immagine, avremmo cambiato il mondo. Nessuno di noi lo sapeva, ma avevamo tutto quello di cui avevamo bisogno per farcela, eppure, come persone, come gruppo, in realtà non avevamo nulla, non eravamo ricchi e non avevamo certo un pubblico vasto. Abbiamo vissuto un momento meravigliosamente naïf, un’età dell’innocenza».

[foto Facebook Joy Division Official]