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Quest’anno si celebra il quarantesimo anniversario di un disco epocale ed eccitante, uno dei migliori mai incisi su un supporto in vinile: Unknown Pleasures dei Joy Division. Ne parliamo con Peter Hook, il bassista del gruppo, in una lunga chiacchierata, tra ricordi, emozioni e qualche rimpianto.

[di Jonathan Wright – articolo integrale pubblicato su Vinyl n.10 / continua da Joy Division: inno alla gioia – pt. 1/3]

Fuga al centro

I Joy Division di quel periodo, forgiatisi nel crogiuolo del punk, sono già una forza della natura dal vivo.
Hook e il chitarrista Bernard Sumner, già compagni di scuola, hanno formato la band dopo essere rimasti folgorati alla prima leggendaria performance dei Sex Pistols alla Lesser Free Trade Hall di Manchester, il 4 giugno 1976.

Ian Curtis è invece presente al secondo concerto dei Pistols nella stessa sala, il 20 giugno.
Entrambi gli show sono organizzati da Howard Devoto e Pete Shelley dei Buzzcocks. All’epoca i Sex Pistols e i Clash sono i suoi eroi, ricorda Hook.

«Noi volevamo essere un gruppo punk, avere quella strafottenza e quell’impatto sonoro. Ma Martin riconobbe la delicatezza  la profondità delle nostre canzoni e ci disse senza mezzi termini che stavamo sbagliando, che dovevamo affidarci a lui, perché noi non conoscevamo la differenza fra A e B. Perché non avevamo esperienza. Fortunatamente ci ha visto giusto, ha capito la natura dei Joy Division, mentre noi non avevamo capito niente».

L’importanza di Hannett, che «comandava con le buone e con le cattive» e che «certamente non era un insegnante simpatico», è fondamentale per il suono della band. Lo splendore glaciale che dona alla batteria di Stephen Morris, per esempio, enfatizzando il colpo di rullante, cambia per sempre il modo in cui i dischi vengono registrati, ma è importante capire che Hannett sta lavorando con un gruppo che ha iniziato a definire una propria identità.

Già nella performance a Granada Reports ci sono tutti gli elementi essenziali, in particolare i brani, ormai perfezionati da continue prove e concerti.
«Martin non ha cambiato le canzoni», dice Hook, che inizialmente non è affatto contento di come suona l’album. «Ha cambiato la nostra percezione delle canzoni».

Tuttavia, nella sua esaltazione della fuga, Unknown Pleasures è un classico album punk. I Joy Division, ricorda Hook, erano una band di Salford, come a dire «i cugini poveri di Manchester».
Alla fine degli anni ’70 quest’espressione assume una sfumatura sinistra. «Stavamo diventando adulti in un contesto difficile, spaventati a morte, e il nichilismo del punk era un antidoto perfetto alla confusione che provavamo», continua.

Tuttavia, invece di scagliarsi furiosamente contro la cruda realtà che li circonda, catturata in molte agghiaccianti immagini della band, l’energia che sprigiona Unknown Pleasures è interamente rivolta all’introspezione, un cambiamento ben esemplificato dal brano di apertura dell’album, Disorder: «Aspetto una guida che mi prenda per mano/Queste sensazioni potranno farmi provare i piaceri di una persona normale?».

«Era tutto molto indiretto», secondo Hook. «Mentre gli album punk sono generalmente molto più diretti nell’espressione, no? Di solito sono una sequela di insulti. I Joy Division stavano modellando un nuovo paesaggio. Volevamo che l’ascoltatore potesse sognare ciò che avrebbe fatto fare una volta uscito dalla difficoltà in cui si trovava. Il punk è come uno che ti grida contro per farti scendere dall’autobus: “Scendi da ’sto maledetto autobus, bastardo!”. Noi, invece, volevamo dire: “Adesso scendiamo da questo autobus e andiamo in un posto meraviglioso”. Per me è questa la differenza tra il punk e i Joy Division. Sei destinato ad andare da qualche parte, ma ci devi andare portandoti i tuoi sogni, ed è un messaggio molto più positivo e potente che non il semplice urlare contro qualcuno».

Quest’aspetto propositivo dei Joy Division merita una riflessione. A causa del suicidio di Ian Curtis la storia della band è stata spesso raccontata nei termini di una tragedia, al punto che è difficile non leggere un brano come She’s Lost Control, che parla di una giovane donna epilettica che Curtis aveva incontrato quando lavorava in un centro socio-educativo di Macclesfield, come un presagio di ciò che sarebbe accaduto.

Tuttavia, quella dei Joy Division è anche una storia di ottimismo, della magia creata da quattro individui la cui grandezza è stata decisamente maggiore della somma delle singole parti. Certamente Ian Curtis era un autodidatta problematico, ispirato da Iggy Pop e dalla Berlino di David Bowie, dagli scritti di J.G. Ballard, William S. Burroughs e Fëodor Dostoevskij.
Ma è stato anche la persona che, prima che la band firmasse per la Factory, ha chiesto a Tony Wilson di mandare i Joy Division in televisione.

«Aveva degli obiettivi ed era così ambizioso che non permetteva a nessuno di sbarrargli la strada», ricorda Hook. «Ha aggredito Wilson, dandogli del coglione: “Dovresti metterci nel tuo dannato programma, imbecille, siamo i migliori che ti siano mai capitati!».

L’ombroso Curtis, incoraggiato da Hook e Sumner a esprimere il suo lato più estroverso e spregiudicato, spesso diventa il motivatore del gruppo.
«Ian era un grande, arrivava e ti diceva: “Siamo fantastici, il mondo lo capirà, tutto quello che dobbiamo fare è tenere duro, non demordere e tutto andrà bene”», ricorda Hook. «Quando un gruppo non riesce a ottenere date è scoraggiante, vorresti mollare tutto, perché lavori così duramente in condizioni tremende. Unknown Pleasures è stato scritto in un magazzino a cinque gradi sotto zero, con le mani blu per il freddo. È stata una fatica improba, date le circostanze, ma l’abbiamo fatto».

[continua con la terza parte lunedì 28]