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Quest’anno si celebra il quarantesimo anniversario di un disco epocale ed eccitante, uno dei migliori mai incisi su un supporto in vinile: Unknown Pleasures dei Joy Division. Ne parliamo con Peter Hook, il bassista del gruppo, in una lunga chiacchierata, tra ricordi, emozioni e qualche rimpianto.

[di Jonathan Wright – articolo integrale pubblicato su Vinyl n.10]

Nel corso della loro breve carriera, i Joy Division fanno una sola comparsa in un programma televisivo nazionale.
È il settembre del 1979 ed eseguono Transmission e She’s Lost Control a Something Else, uno dei primi show dedicati ai giovani sul secondo canale della BBC.

Gli elementi che hanno reso i Joy Division così irresistibili ci sono già tutti: pattern ritmici imprevedibili, scambio di linee soliste fra basso e chitarra e un atteggiamento generale tra il bellicoso e l’ossessivo.
E poi c’è Ian Curtis, che prima si scuote in un movimento convulso e poi, perso nella musica, inizia a danzare come un posseduto, apparentemente dimentico di tutto ciò che lo circonda.

Il contrasto fra la prima apparizione televisiva locale della band, giusto un anno prima, quando eseguono Shadowplay durante una puntata di Granada Reports, un programma regionale condotto da Tony Wilson, è sottile ma significativo.
C’è maggior fiducia nei propri mezzi, maggior esperienza, anche i vestiti sono migliori. I Joy Division dell’autunno 1978 sono acerbi e promettenti, un anno dopo sono un frutto maturo, terribilmente buono.

Oggi, con la celebrazione del quarantesimo anniversario dalla pubblicazione di Unknown Pleasures, sembra il momento giusto per chiedersi quale alchimia li abbia resi possibili.
«Probabilmente sono la persona peggiore a cui chiederlo», ride il bassista della band, Peter Hook. «Per noi è stata una battaglia». Hook ci parla dal Portogallo, dove è in tour con la sua attuale band, The Light. «È stata una battaglia arrivare a Something Else, è stata una battaglia sopravvivere come gruppo, è stata una battaglia conquistarsi ogni singolo gig. È stato come scalare l’Everest… Anche ottenere una parte di supporto per Johnny Thunders and the Heartbreakers a una decina di sterline era un’impresa eroica. Sono stati tempi difficilissimi, cercavi di afferrare tutto quello che potevi, non c’erano occasioni facili».

In parte ciò accade perché i Joy Division sono tra quelli che stanno inventando un nuovo modo di fare le cose, più per necessità che per virtù.
La band si forma nel 1976 – all’inizio si chiama The Stiff Kittens, probabilmente su suggerimento del manager dei Buzzcocks, Richard Boon, e poi Warsaw – e nel maggio del 1978 ha già registrato un album, in seguito molto piratato, per la Grapevine Records, una sotto-etichetta della RCA.

Il risultato, però, non piace alla band che, grazie all’energico aiuto del suo nuovo manager Rob Gretton, riesce a liberarsi dal contratto. Invece di rivolgersi a un’altra major, i Joy Division cercano di percorrere una strada indipendente, registrando per la neonata Factory Records di Tony Wilson, un’etichetta che il proprietario finanzia grazie a un’eredità ricevuta alla morte della madre.

Oggi una decisione del genere non desterebbe perplessità, ma va contestualizzata all’epoca, i primi mesi del 1979, quando la Rough Trade porta Inflammable Material, l’album di debutto degli Stiff Little Fingers, nella Top 20 degli album britannici, sfidando l’incredulità generale. È questo che convince i Joy Division della bontà della decisione, nonostante gli svantaggi finanziari.

«L’etichetta non aveva il denaro per farci la promozione», dice Hook. «Dovevamo autofinanziarci tutto». Tuttavia la Factory offre la possibilità di avvalersi di una scuderia di talenti genialoidi, tra i quali il produttore Martin Hannett, che inizia a lavorare con i Joy Division sulle tracce registrate dalla band per un Ep promozionale della Factory.

Nell’aprile del 1979 il gruppo e Hannett entrano negli Strawberry Studios di Stockport, di proprietà di Eric Stewart e Graham Gouldman dei 10cc.
«Per noi era come entrare in un territorio alieno», ricorda Hook, ma c’era «un meraviglioso senso di eccitazione» perché stavamo lavorando in uno studio professionale. «Tutto era ancora più emozionante perché ci intrufolavamo in studio alle otto di sera e lavoravamo fino alle otto del mattino seguente. Era una situazione a suo modo eccitante, anche se questo lavorare in orari assurdi lo dovevamo al non poterci permettere di occupare lo studio durante ore più consone. Di notte costava meno…».

[continua con la seconda parte domenica 27 / foto: Kevin Cummins – Facebook Joy Division Official]