A tu per tu con quattro pilastri che hanno reso grandi le sonorità del blues oltremanica

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Il blues non è solo a stelle e strisce. Anzi, a ben guardare la sua tradizione si ritrova largamente anche in Gran Bretagna, con uno stile a sé stante, che ha intercettato negli anni un gran seguito. Molto del merito si deve a un grande appassionato della musica del diavolo, Alexis Korner: non a caso rinominato “padre fondatore” del Blues britannico. Non si possono non citare, però, l’impatto che ebbero sul movimento il quartiere di Soho nel cuore di Londra, John Mayall, il bluesman che – più di tutti – portò le sonorità britanniche oltreoceano, e la Blue Horizon, un’etichetta discografica nata da un’iniziativa personale che mise la Gran Bretagna sulla mappa del blues mondiale. 

Immagine © Jack Bassingthwaighte

CHI È ALEXIS KORNER: IL PADRE DEL BLUES INGLESE

La scena blues britannica si sviluppa nella sua forma più embrionale a partire dei primi Anni ’50 con esponenti del calibro Chris Barber, trombonista di fama, che, incuriosito dalla commistione di sonorità tra jazz e blues, forma la Chris Barber Jazz Band, quintetto specializzato nel repertorio di New Orleans con divagazioni folk-jazz e blues. Il passo fondamentale, però, avviene nel 1961 quando Alexis Korner fonda la Blues Incorporated, con se stesso alla chitarra, Korner Cyril Davies all’armonica, Dave Stevens al piano, Dick Heckstall-Smith al sax tenore e Andy Hoogenboom al basso. Al quintetto si aggiungono saltuariamente altri amanti del blues, come Mick Jagger, Keith Richards, Brian Jones, Charlie Watts e tanti altri.

A testimonianza di quell’irripetibile periodo rimangono almeno un paio di registrazioni formidabili raccolte in Blues From Roundhouse (1957) e documentate dal live R&B from the Marquee (1962). La creatività un po’ anarchica di Korner lo spinge, poi, per tutti gli anni successivi a formare nuovi gruppi, sempre più sperimentali, ma regolarmente di breve durata. Come molti grandi, più che il successo seguì un’idea: la sua passione ha contribuito a rendere il blues una musica universale.

SOHO: IL DIAVOLO NEL CUORE DI LONDRA

Sempre tra gli Anni ’50 e i ’60, la scena musicale londinese evolve grazie a giovani band del British Blues che, vogliose di farsi notare, si ritrovano nelle strade di Soho. Quei vicoli, dove affondano le radici del British Blues, diventano presto mecca per il grande pubblico, grazie ad artisti allora emergenti come Davy Graham, Long John Baldry e Ralph McTell e a bluesmen americani del calibro di Sonny Terry, Brownie McGhee, Big Bill Broonzy e Muddy Waters.

Evento fondamentale è l’apertura, nel marzo 1962, dell’Ealing Club, fin da subito la nuova casa di Alexis Korner che, a nemmeno un mese dall’apertura, presenta Brian Jones a Mick Jagger e Keith Richards, aggregando il primo nucleo dei Rolling Stones, e molti esponenti del nascente R’n’B britannico. Dall’Ealing passano anche i Manfred Mann, i Detours (che stanno per rinominarsi The Who), Eric Burdon con gli Animals ed Eric Clapton. Ancora a Soho, in Wardour Street, si trova il Flamingo Club: ha una cattiva reputazione con risse quotidiane, ma le sue jam session rimangono nella storia. A Oxford Street c’è invece il 100 Club, ex-locale jazz per musicisti locali che vira dapprima verso il blues, poi sul rhythm’n’blues e infine – nella seconda metà degli Anni ’70 – verso il punk. Sulla stessa strada Harold Pendleton apre nel 1958 il Marquee Club, poi trasferito in Wardour Street, dove ospita Who, Led Zeppelin e Jimi Hendrix.

In pochi anni un nuovo genere trasforma un quartiere storico nell’epicentro della cultura giovanile. Quel crossover artistico irripetibile avrebbe reso Londra la nuova capitale della musica negli Anni ’60, facendo di “Rhythm and Blues & Soho” un connubio indissolubile.

 

JOHN MAYALL: LA VOCE DEL BRITISH BLUES

Da Manchester verso Londra fino a oltrepassare l’oceano, John Mayall è il primo British bluesman a fare del Chicago blues una religione. I suoi Bluesbreakers, nonostante i costanti cambi di formazione, diverranno una nave scuola per un nugolo di fuoriclasse. Al grido di “low volume music” lancia un anatema contro il dilagare degli assoli invadenti e in primo piano che – suo malgrado – aveva contribuito ad alimentare all’inizio della sua carriera, accogliendo nel gruppo “divi” come Peter Green, Eric Clapton e Mick Taylor.

The Turning Point, suo primo album americano (uno dei 18 vinili inclusi nella serie Betterly ‘They Got Blues’), è acustico e suonato senza batteria. Una sezione ritmica drum-less non poteva che pesare interamente sulle spalle dell’ottimo bassista Steve Thompson, co-autore della grande “Thoughts About Roxanne” in cui fece meraviglie fondendo il suo suono e il suo stile con quelli di Johnny Almond, l’uomo dei fiati (sassofoni e flauti). I due riversano nel disco una vena jazz che ne attira gli appassionati. Completano la squadra lo splendido Jon Mark alla chitarra acustica e, lontano dal palco, l’ingegnere del suono Eddie Kramer, che si era appena occupato di Led Zeppelin e Jimi Hendrix.

John Mayall resta il demiurgo. Alla fedele armonica (fantastica in “Room to Move”) aggiunge slide guitar e tamburello. Canta, produce e firma da solo, o in coppia, tutti i brani. Il cuore blues dell’album pulsa in “So Hard To Share”, forte di un’intensità cercata e trovata senza alzare il volume.

 

LA BLUE HORIZON: A VERY BRITISH LABEL

Mike Vernon è un giovane appassionato di blues che, a nemmeno vent’anni, trova un impiego alla Decca, storica casa discografica inglese specializzata in registrazioni classiche. Lì conosce Eric Clapton quando suona già con Mayall e rimane incantato da un loro concerto al Flamingo Club a tal punto da voler ingaggiare i Bluesbreakers. Mayall non se lo fa ripetere e gli propone di produrre il nuovo Blues Breakers with Eric Clapton: è l’inizio col botto di un’attività discografica in studio che Vernon comincia a svolgere scrupolosamente, fondando una sua etichetta indipendente, la Blue Horizon.

Vernon, da buon appassionato di blues, decide di scandagliare il mercato inglese mettendo sotto contratto personaggi di tutto rilievo come gli esordienti Fleetwood Mac, che nel 1968 realizzano il loro primo celebre album omonimo con un Peter Green in grande spolvero sia come autore che come chitarrista. Proprio quest’ultimo stabilisce un rapporto di fiducia con Vernon e rifiuta altri contratti, affidandogli anche la pubblicazione del secondo lavoro Mr. Wonderful. Anche i Chicken Shack registrarono i loro album migliori come 40 Blue Fingers, Freshly Packed and Ready to Serve e 100 Ton Chicken; seguono poi Aynsley Dunbar, Gordon Smith e tanti altri.

Grazie alla distribuzione della CBS, la Blue Horizon ottiene un buon successo sfruttando anche la presenza in suolo britannico di bluesmen come J.B. Lenoir, Doctor Ross, Otis Spann e Champion Jack Dupree, che incidono alcuni album in esclusiva. Senza Mike Vernon, il cui acume e passione hanno sviluppato la scena blues inglese, il British Blues non sarebbe stato lo stesso.

 

Queste storie e molte altre sono raccontate in They Got Blues, la serie Betterly dedicata al blues in vinile