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Motown: una fabbrica di successi, fucina di star, fonte di ispirazione per i più grandi, dai Beatles a Prince. Gareth Murphy ripercorre le storia di una della più famose etichette discografiche. Che quest’anno compie sessant’anni ed è ormai un mito eterno della musica

di Gareth Murphy
articolo originariamente pubblicato su Vinyl n.7 (marzo 2019)
continua da Motown: 60 anni e non sentirli – pt 1 di 2
foto: Blob4000 – licenza public domain

Duro lavoro… e metodo

Come in una palestra di pugili «la competizione era fortissima», ricorda Quincy Jones, un concorrente della Motown, di cui tuttavia era un affascinato ammiratore. «Ma non era una lotta tra ego, era una competizione per diventare sempre migliori… i migliori». L’autore e produttore della Casa, Norman Whitfield, concorda: «La competizione era al centro di tutto alla Motown, perché competere è l’unico modo per diventare grandi».

A volte, però, si esagera. Marvin Gaye ricordava come Gordy scommettesse con gli altri impiegati su quale, tra due gocce di pioggia scelte a caso sul vetro bagnato della finestra, sarebbe scesa per prima. Un aneddoto divertente ma non banale, perché rivela la natura di Berry. Come tutti i grandi discografici, Gordy è in sostanza uno scommettitore. Ma ha anche l’indubbia capacità di far emergere il meglio da ognuno dei suoi collaboratori.

Per giudicare la bontà delle registrazioni finali, mette in piedi un particolare sistema di controllo della qualità: chiama a esprimersi frotte di ragazzini. Per quanto appaia improvvisato, questo meccanismo consente di minimizzare i contrasti interni alla casa discografica, individuare subito i brani destinati a un successo immediato e proporsi in maniera credibile come “il suono dell’America giovane”. L’obiettivo è raggiungere il pubblico più ampio possibile.

Come dice Gordy: «La Motown voleva fare musica per tutti, bianchi e neri, blu e verdi, guardie e ladri. Non volevo escludere nessuno». Naturalmente, il denaro è una parte fondamentale della formula che porta al successo. Avendo sperimentato da ventenne che cosa significhi essere al verde, Berry Gordy ha sviluppato un approccio assolutamente pragmatico e realista: prima di essere pubblicato, ogni disco della Motown deve passare un rigoroso test “prendere o lasciare”: «Se avessi in tasca il tuo ultimo dollaro, compreresti questo disco o un panino?».

Sempre più grandi

Tanta attenzione non poteva non avere conseguenze. A causa di un controllo così ossessivo, le liti di Martha Reeves con il boss non si contano. I cantanti firmano contratti che li obbligano a piegarsi in toto alle esigenze della casa discografica e sono incessantemente on the road per concerti ed eventi promozionali.

Gordy insiste affinché i guadagni più consistenti siano accreditati su conti deposito, «così che gli artisti non finiscano sul lastrico». I cantanti, soprattutto quelli che non possono affiancare il canto alla scrittura dei testi e al lavoro come turnisti, si lamentano delle royalties sulle vendite, fissate al 3%.

Nel reparto scrittura i brani vengono “rubati” in continuazione, ammette Clarence Paul, e spesso i diritti non sono accreditati in maniera corretta. I più critici sostengono che, in fondo Gordy, stia semplicemente continuando la vecchia pratica di sfruttamento degli artisti di colore, ma in realtà gli introiti della Motown vanno a sfamare una miriade di bocche.

La maggior parte dei cantanti fa una sola cosa: cantare, appunto. Alla fine degli anni ’60 l’etichetta deve però garantire un buon salario a circa cento dipendenti, espandendosi in altri edifici lungo la via in cui si è insediata. Hitsville U.S.A. è lo studio di registrazione, Motown Record Corp è l’etichetta, l’International Talent Management è l’agenzia che gestisce i tour, lo Jobete Music Publishing è il laboratorio creativo.

Il filo rosso che unisce tutte queste attività sono le canzoni. «La Motown era la mecca», ricorda Valerie Simpson del duo Ashford & Simpson, «ogni autore di canzoni sognava di lavorare per loro». Quello che rende il tutto eccitante, però, sono i Funk Brothers, ovvero la in-house band della casa discografica. Nonostante vivano nell’ombra, sono almeno in tredici, anche se il cuore pulsante è la sezione ritmica costituita dal pianista Earl Van Dyke, il bassista James Jamerson e il batterista Benny Benjamin. Fino al 1971 i loro nomi non compaiono nemmeno nei crediti di copertina, ma Gordy non lesina nei compensi, in modo che possano vivere comodamente nelle vicinanze ed essere sempre pronti alla chiamata. Dà vita anche a una sotto-etichetta, la Soul, per pubblicare i loro brani più innovativi insieme ad artisti come Junior Walker, Jimmy Ruffin e Gladys Knight & The Pips.

Considerando che i Funk Brothers suonano in quasi tutti i classici della Motown, non è azzardato dire che siano stati la band con il maggior numero di primi posti in classifica, più di Elvis e dei Beatles messi insieme. Quando arriva la British Invasion, infatti, Gordy controbatte colpo su colpo ai capelloni d’Oltreoceano, mettendo a segno nel corso degli anni ’60 ben venti numeri uno nelle chart americane, dodici dei quali a opera delle Supremes. Non solo, ma ispira a sua volta i giovani britannici che non si riconoscono nelle facce pulite dei Fab Four. «I mod amavano la Motown», ricorda Pete Townshend, «perché proponeva un suono urbano».

Attorno alla casa discografica c’era una città, una comunità, sembrava quasi che i dischi prendessero vita nelle strade. Erano belli, ben eseguiti, scrittura e registrazione erano perfetti».

Lotta fino alla fine

Lo stile creato dall’etichetta, il suo glamour funk sospeso tra mohair e paillette, il suo realismo ritmico e selvaggio, affascina una nuova generazione di artisti, da Bryan Ferry a Graham Parker. Nessun altro riesce a mischiare in maniera così efficace vita reale e spettacolo e ogni giornalista musicale ha in bocca la stessa domanda: «Come fa la Motown a essere così speciale?».

Non lo sanno esattamente neanche i protagonisti di questa fantastica avventura, anche se Berry Gordy, Diana Ross e Smokey Robinson ne hanno distillato l’essenza in una formula di sei parole, ormai diventata celebre, che si ricollega alle loro umili origini: «topi, scarafaggi, lotta, talento, istinto, amore». Questa spavalderia da combattenti di strada si andrà addolcendo con il trascorrere del tempo e dei successi.

Il controverso trasferimento a Los Angeles, nel 1972, è considerato dai puristi la fine dell’età classica dell’etichetta. Nonostante tutto, però, negli anni ’70 riesce a portare al top delle classifiche altri venticinque successi grazie a Jackson 5, Stevie Wonder, Marvin Gaye, Diana Ross, Thelma Houston e i Commodores. Album come What’s Going On di Marvin Gaye e Songs in the Key of Life e Innervisions di Stevie Wonder sono tra i classici di quel decennio.

Sempre negli anni ’70, Norman Whitfield e i Funk Brothers creano delle autentiche, ma sottovalutate, gemme per i Temptations, soprattutto l’album All Directions, con la versione originale di 12 minuti di Papa Was A Rollin’ Stone.

Quando irrompe sulla scena la disco music, Michael Jackson e Diana Ross vengono “rapiti”dalle major. Lionel Richie continua a mettere a segno successi fino agli anni ’80, ma per allora il modello di business dell’etichetta è ormai obsoleto. Con l’arrivo di MTV e la pratica sempre più diffusa da parte dei big dell’industria discografica di pagare le emittenti radiofoniche per trasmettere i propri dischi, nessuna etichetta indipendente può permettersi di investire il milione di dollari necessario per il solo lancio commerciale di un singolo pop.

Nel 1989, come la A&M e la Island prima di lei, anche la Motown è messa in vendita e viene acquisita dalla MCA per 64 milioni di dollari. Berry Gordy ne rimane presidente, con una quota del 20% dell’azionariato.

Spesso imitata ma mai eguagliata, la Motown è sempre stata più di una formula musicale. Nonostante un catalogo che si sviluppa nell’arco di sei decenni, la creatura di Gordy è rimasta sinonimo di Sixties, quel magico decennio in cui la televisione a colori e le pop chart multirazziali rimpiazzano il vecchio mondo in bianco e nero, in tutti i sensi.

La canzone, o meglio il grido di battaglia, che cattura l’essenza assoluta dell’etichetta è Reach Out I’ll Be There dei Four Tops. Fate calare la puntina nel solco e non abbiate paura delle lacrime che vi saliranno agli occhi. Non fermatele. Questo mondo crudele vi inghiottirà se non aprite all’abbraccio dell’amore.

Alla fine, che cosa rendeva la Motown così diversa? Nelson George, lo storico dell’etichetta, risponde sicuro: «Berry Gordy, i talenti che ha messo insieme e il modo in cui riusciva a organizzare e motivare le persone che lavoravano con lui». Sin dagli anni ’20, dalla profondità dei bassifondi popolari sono risalite onde su onde sonore di grande musica nera. Blues, swing, bebop, R&B, gospel, soul… eppure nessuno prima di Gordy è riuscito a fondere tutto questo in una musica così potente, diretta, unica nella sua anima. La colonna sonora di una nuova era, in cui milioni di giovani, in ogni parte del mondo, sono stati trascinati in una rivoluzione intensa, incerta, inebriante.