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Alla fine degli anni ’70 Trevor Horn ha annunciato il futuro con The Age of Plastic. Sembravano canzonette e invece era una rivoluzione.

di Andrea Pedrinelli
articolo originariamente pubblicato su Vinyl n.7 (marzo 2019)
[foto: Rouserouse – Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International]

Dalle classifiche pop alla produzione… passando per gli Yes

Pet Shop Boys, Grace Jones, Cher, Robbie Williams, Simple Minds, Rod Stewart, Belle and Sebastian, Lisa Stansfield, Tom Jones. Non è un mero elenco di star, ma la lista (parziale) dei tanti grandi artisti prodotti, nei primi quattro decenni della sua carriera di produttore e arrangiatore, dall’inglese Trevor Horn, nato a Sunderland quasi settant’anni fa. E pensare che nella musica da hit parade Horn aveva debuttato in veste d’artista, scrivendo e interpretando nel 1979 coi suoi The Buggles l’evergreen Video Killed The Radio Star, successo da numero 1 in classifica in una ventina di Paesi.
Subito dopo, Horn ha fatto parte degli storici Yes per l’Lp Drama del 1980 (e con gli Yes ha suonato anche in The World Is Live del 2005), ma da subito l’artista aveva scelto per sé soprattutto la strada della produzione cui via via si è dedicato a tempo pieno, con poche e comunque affini parentesi (per esempio la gestione in tour di gruppi come gli Spandau Ballet), riconoscimenti in serie (più volte miglior produttore del Regno Unito, Grammy nel 1995 per Kiss From a Rose di Seal) e l’orgoglio di aver lavorato con gente del calibro di sir Paul McCartney, Tori Amos, Mike Oldfield, Genesis e Tina Turner.

Gli intramontabili anni Ottanta

Fra un successo da produttore e l’altro, però, Horn ha continuato pure a incidere in prima persona. Lo ha fatto di rado ma bene, tra colonne sonore per cinema e gli Art of Noise, nati dopo The Buggles e attivi fra il 1984 e il 2004.
Anche per il suo 70˚ compleanno, che cadrà a metà luglio, Trevor ha deciso di produrre se stesso in toto: licenziando così  Trevor Horn Reimagines The Eighties, album nel quale, con la Sarm Orchestra e vari ospiti di spicco (dai “suoi” Robbie Williams e Seal a Tony Hadley, Steve Hogarth, le All Saints e la giovane, bravissima Gabrielle Aplin), vengono rilette, o meglio ricostruite a livello sonoro e in pratica prodotte ex novo, canzoni più o meno note degli anni cosiddetti “di plastica”. L’album della rentrée di Horn conferma due faccende. Innanzitutto, che negli ’80 si scriveva ancora signora musica, capace di restare. In secondo luogo, che una produzione intelligente e colta non sa valorizzare solo brani del passato ma di ovvia forza quali Ashes To Ashes di Bowie o Dancing In The Dark di Springsteen, bensì pure cose meno considerate e per molti iperdatate come Take On Me degli A-Ha, Blue Monday dei New Order, Everybody Wants To Rule The World dei Tears for Fears. Perché forse è inevitabile che un produttore del livello, della cultura e della poliedricità di Trevor Horn sappia tirar fuori il massimo da ogni tipo di scrittura: valorizzando anche le più fragili e portandole tutte in una contemporaneità sonora d’alto bordo. Come è d’alto bordo la fortuna di chiacchierare con lui di ben otto lustri vissuti dentro la grande musica pop e rock.

Perché hai scelto la produzione? Avevi ottenuto grande successo, cantando…
Perché mi sentivo un musicista e, in realtà, non mi piaceva il modo in cui mi ero trovato a far musica con The Buggles. Avevo interpretato Video Killed The Radio Star quasi per caso, e per mesi la dovetti cantare solo negli show televisivi, ricavando pure un’impressione molto negativa da quel mondo. Inoltre, a dire la verità, avendo lavorato già a quel brano da produttore, trovai subito quel mestiere molto più interessante. Capii che producendo avrei potuto lavorare con i migliori materiali possibili, mentre un artista può contare solo su quanto riesce a scriversi, e non pensavo di avere abbastanza talento da scrivere sempre canzoni  di livello.

Come ricordi i tuoi esordi da produttore?
Legati a un lungo periodo di apprendistato e preparazione. Non c’erano manuali o corsi universitari, quando nel 1975-76 iniziai a interessarmi al mestiere, dovetti imparare da me sul campo. Buggles e anche Yes furono le prime prove importanti, ma con loro andavo ancora pure in scena; alla fine quello che considero il mio vero debutto, la prima produzione valida, fu The Lexicon of Love dell’82 con gli ABC (gruppo britannico di New Wave, nda). All’inizio ebbi subito a che fare con generazioni successive alla mia, e dovetti imparare in fretta come la discografia mutasse di continuo. Però mi considero fortunato, perché non sono rimasto fermo a produrre amici o peggio ancora spazzatura, ho avuto sin dall’inizio belle opportunità.

Fra queste, veder nascere da vicino l’evento di Band Aid Do They Know It’s Christmas? nel 1984, suppongo…
Sì, fu incisa nei miei studi, di quel lavoro produssi il lato B del singolo e vari remix. Avrei dovuto anche occuparmi del pezzo portante, ma ero troppo preso e i tempi erano strettissimi, così mi subentrò Midge Ure.

Con il tuo nuovo album sei tornato agli anni Ottanta da interprete-arrangiatore-produttore. Perché a quel decennio e non ad altri?
Perché penso sia stato l’ultimo periodo in cui la musica era attraente, l’ultimo con artisti di sicure conoscenze musicali a prescindere dalle opportunità che la tecnologia poteva dare al fare musica. Negli anni Ottanta ci fu la convivenza migliore fra suonare dal vivo e con i computer, poi questi hanno prevaricato.

[Continua con la seconda parte]