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Nei primi anni ’80 i Talk Talk sembrano una delle tante band cinicamente commercializzate dalle case discografiche sotto l’etichetta di New Romantic, ma il loro terzo album, The Colour Of Spring, cambia per sempre il loro destino artistico. Grazie anche alla tenace volontà e ai sogni di un cantante che credeva di non saper cantare

[di Neil Crossley – articolo integrale pubblicato su Vinyl n.10 / continua da Talk Talk: primavera di rinascita – pt. 1/3]

Segno dei tempi

Incoraggiato dal fratello, Mark scrive un pugno di canzoni e comincia a forgiare un suono molto più complesso.
Mette insieme una nuova band con il tastierista Simon Brenner e due ex membri degli Eskalator, un gruppo reggae del Southend londinese, il batterista Lee Harris e il bassista Paul Webb.
E le cose si muovono in fretta.

Una loro demo arriva fino alle orecchie di Keith Aspden, scout della EMI, che ne rimane così impressionato da lasciare il suo lavoro per far loro da manager.
La EMI mette così sotto contratto la band, che ha assunto il nome di Talk Talk, e cerca di trasformarla nei nuovi Duran Duran, uno dei gruppi di punta dell’etichetta.

Nel piano iniziale, la formazione dovrebbe includere piano, basso, batteria e Hollis alla voce solista ma, inevitabilmente, i sintetizzatori che tanto caratterizzano la musica di quel decennio entrano presto nella formula sonora del gruppo.
La EMI li affida al produttore Colin Thurston, che può vantare collaborazioni con David Bowie, The Human League e Duran Duran e il risultato è The Party’s Over, l’album di debutto dei Talk Talk del 1982, da cui sono estratti due singoli: Mirror Man e una nuova versione di Talk Talk.

Il disco ottiene un discreto successo, arrivando al numero 21 della classifica degli album britannici, ma nonostante l’inizio incoraggiante la band è sempre più spaventata dal tentativo della EMI di farli apparire come un gruppo del movimento New Romantic.

Quando Brenner lascia i Talk Talk nel 1983, non viene sostituito proprio perché la band vuole smarcarsi dal genere pop e dai suoi onnipresenti sintetizzatori. L’insofferenza si manifesta anche nei confronti delle campagne pubblicitarie impostate dall’etichetta, che li ritrae in abiti arzigogolati con lucenti giacche in seta bianca.
«Alla fine ci si stufa a sentire in continuazione i paragoni con i Duran Duran», dichiara Hollis a Noise!. «Non ce la faccio più. L’intera faccenda mi deprime, perché i ragazzi dovrebbero avere l’opportunità di conoscere la nostra musica, non la nostra immagine».

Impatto immediato

In un tentativo pianificato di lasciarsi alle spalle l’immagine pop che gli è stata cucita addosso e rigenerare la vena creativa, la band si prende un anno di tempo per incidere il nuovo album, It’s My Life (1984).
Il rifiuto dell’immagine creata dalla EMI passa anche dal cambio di guardaroba: via giacche e sete appariscenti e sotto con giubbotti da pescatore, berretti di lana e blue jeans.

Il passo successivo è assoldare il produttore e musicista Tim Friese-Greene, che svolge un ruolo chiave nella loro evoluzione musicale, tanto da diventare de facto il quarto membro della band, facendo da produttore, tastierista e, soprattutto, coadiuvando Hollis nella scrittura dei brani. Il suo impatto è immediato.

It’s My Life è il risultato sonoro di una band che sta abbandonando la formula stereotipata del synth-pop a favore di una musica più matura e sofisticata. Le liriche dei brani diventano più personali ed emotive e, sebbene i sintetizzatori siano ancora alla base del suono, il gruppo non ha paura di introdurre nel mix anche strumenti analogici e ritmi da world music (così come versi di animali registrati allo zoo di Londra…).

Anche la scrittura dei testi mostra una maggiore sicurezza rispetto all’album di debutto. In breve, It’s My Life è un disco coeso che offre canzoni dal groove caldo e seducente.
Dal disco vengono tratti tre singoli: Such a Shame e Dum Dum Girl e la title track, che diventa il brano di maggior successo della band (e lo sarà anche per gli americani No Doubt, circa vent’anni dopo).

L’album contiene anche quella che può essere considerata la migliore registrazione dei Talk Talk, il brano Renée, un vero e proprio showcase per la voce profondamente soul e malinconica di Hollis, che The Guardian definirà «piena di pathos, passioni trattenute e un senso di urgenza».

L’album raggiunge la top 5 in numerosi Paesi europei, ma nel Regno Unito si ferma al numero 35, un risultato probabilmente condizionato dalla volontà della band di prendere le distanze dal mercato mainstream, come risulta evidente dal video realizzato per il singolo It’s My Life.

Diretto da Tim Pope, che fa ampio uso di sequenze tratte dai documentari della serie Life on Earth di David Attenborough per la BBC, il video viene rifiutato dalla EMI.
Rigirato, il nuovo video mostra un Mark Hollis incupito, che si rifiuta di andare in sincrono con il cantato.

Le sessioni di registrazione dell’album segnano anche l’inizio di un’intensa e ossessiva abitudine alla sovraincisione, come testimoniato da Phil Spalding, bassista di Mike Oldfield. Convocato per le sessioni in studio di quei giorni, Spalding  arriva in uno stato pietoso a causa di una sbornia e passa così l’intero pomeriggio e la sera a registrare incessantemente le stesse parti di basso.

[continua con la terza parte domenica 10]