Tra chitarre indiavolate e riti occulti, le radici del blues affondano nella magia nera

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“Blues is easy to play, but hard to feel”, diceva Jimi Hendrix. Sosteneva, insomma che il blues fosse semplice da suonare, ma difficile da provare, da sentire… Mai frase fu più azzeccata per un genere che, più di tutti gli altri, è andato oltre la musica, imponendosi come una vera e propria cultura, ricca anche di magiasuperstizione e incursioni nell’occultismo.

A ben guardare, l’intera mitologia del blues è segnata da due elementi imprescindibili, il voodooe il mojo (una parola intraducibile di derivazione pagana, che si riferisce all’ineluttabilità della sorte e del destino). Entrambi fortemente irrazionali, viaggeranno nel tempo dal delta del Mississippi alle strade di Chicago e molto oltre, costituendo la vera anima di questo genere, come molte storie e aneddoti raccontano ancora oggi.

L’importanza del voodoo nel Blues

Le pratiche di magia nera diventano normalità a New Orleans, Louisiana. The Big Easy è un porto franco dove tutto è permesso a partire dalla fine della Guerra Civile. Qui la cultura creola mescola senza soluzione di continuità Francia e Caraibi, America e Africa, riti pagani e cristiani. È qui che trova il proprio centro di gravità il voodoo: un termine che storicamente indica il sistema di cerimonie religiose delle tribù dell’Africa Occidentale deportate in America fin dal XVII secolo, e che col tempo si è affermato come fattore identitario irrinunciabile tra i solchi dei vinili di rhythm and blues.

Se per gli schiavi del tempo quel riferimento religioso era l’appiglio che li teneva uniti alla terra madre e l’unico spiraglio di luce cui affidarsi per sopravvivere, per i bluesmen la paura del diavolo altro non era che la paura del grande spirito rappresentato dal voodoo.

Le sue sacerdotesse

Legata indissolubilmente a questi riti pagani è una nuova categoria di sacerdotesse – sempre attive in Louisiana – le voodoo queen, che restano tuttora nel ricordo collettivo di quella comunità per la notorietà delle loro arti magiche mediate da polverine e amuleti.

La più ricordata è indubbiamente Marie Laveau, donna bella e ineffabile che, nella seconda metà dell’Ottocento, ascese a un livello di popolarità tale da divenire musa di più di una generazione di artistiNon è un caso che la si ritrovi citata più e più volte in brani di Dr. John e Canned Heat– tra gli altri – incisi su dischi in vinile che hanno fatto la storia del blues.

Il patto col diavolo

Il legame con l’occulto è anche la ragione per cui il blues è comunemente considerato la musica del diavolo, tra superstizioni e rimedi. Ne è esempio – e vittima – per eccellenza il grande Robert Johnson, le cui origini sono avvolte nel mistero. Di lui si sa pochissimo. Il suo maestro Son House racconta solo che aveva una gran voglia di imparare a suonare la chitarra, pur non avendone affatto la propensione. Ci riuscì in poco tempo, dopo un’improvvisa, enigmatica – seppur breve – scomparsa. Affermò di aver acquisito quella tecnica sopraffina direttamente dal diavolo, offrendo in cambio la sua anima. La presenza del maligno sarà presenza costante nella sua vita, tanto che alcuni versi del suo capolavoro “Hellhound on My Trail” recitano: «Blues fallin’ down like hail, blues fallin’ down like hail / And the days keeps on worryin’ me / There’s a hellhound on my trail». (“I blues cadono come grandine e il giorno continua a ricordarmi che ho il diavolo alle calcagna”).

Il blues tra superstizione e magia

Destino similare fu anche quello di Blind Boy Fuller, uno dei bluesman più acclamati degli Anni ’30 che, in punto di morte, si convinse che la causa della sua fine era l’avere suonato proprio il blues.

Fuller, come buona parte della popolazione nera dei suoi tempi, era dilaniato dalla superstizione che derivava in parte dai residui dell’ancestrale cultura africana e in parte dai castighi tremendi che i predicatori promettevano a chi trasgrediva le regole. Riteneva che un potente doctor – uno sciamano – gli avesse inviato un maleficio, agendo per conto di qualche rivale in amore o di una persona malvagia. Solo il mojoun amuleto capace di allontanare la mala sorte, gli avrebbe permesso di sopravvivere.

Il mojo: l’amuleto contro il male

Il termine mojo  sembra derivare dalla lingua yoruba  nell’accezione di “ringraziamento”. Nella pratica, si trattava di un talismano dalle forme molto diverse, spesso legate agli arti di animali, come la zampa di un coniglio o di un pollo. Talora questi amuleti erano avvolti in nastrini, o cosparsi di polvere ed erbe, a discrezione del produttore. Non tutti, però, potevano infondere energia positiva al mojo: solo un iniziato alla magia ne aveva la capacità; e se e il mojo non funzionava significava che il malocchio di cui si era oggetto, era ancora più forte del suo antidoto. In quel caso occorreva ricorrere a un doctor ancora più potente…

Queste storie e molte altre sono raccontate in They Got Blues, la serie Betterly dedicata al blues in vinile.