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È il 7 luglio del 1970 e sul mercato giunge la seconda fatica in studio degli Stooges: un album che ha lasciato un segno indelebile nella storia, a dispetto di un flop a livello di vendite. Ecco tutti i retroscena di quelle session ormai leggendarie…

[di Andrea Valentini – continua da Stooges, Fun House: 50 anni e non sentirli – pt. 1/2]

Un’idea geniale di Don è di procedere nelle incisioni affrontando un brano alla volta, fino al completamento, e nell’ordine della scaletta.
Vengono immortalate una media di circa venti take per ogni canzone e spesso ci sono notevoli differenze tra le versioni incise all’inizio della giornata e quelle alla fine. I testi cambiano, il tempo varia, gli assolo sono differenti e il numero di giri delle strofe aumenta.

Il mixaggio

Al momento del mixaggio gli Stooges si piegano ad accettare due piccoli compromessi.
Innanzitutto, in accordo col produttore, viene deciso di accorciare la delirante jam L.A. Blues: originariamente dura 17 minuti (ed è intitolata Freak: è la canzone finale dei concerti degli Stooges), ma viene giudicata troppo impegnativa per l’ascoltatore.
Inoltre viene inserito il canonico silenzio tra un brano e l’altro del disco, mentre inizialmente il gruppo avrebbe desiderato che la musica fluisse senza cesure, in modo da dare l’idea di un corpo unico, come dal vivo.
La Elektra, però, richiede espressamente che le canzoni siano ben divise: è un accorgimento che facilita i passaggi radiofonici e non può essere trascurato ai fini della promozione.

La scaletta finale di Fun House prevede sette brani, ognuno dei quali è destinato a diventare semplicemente una pietra miliare nella storia del rock. In particolare TV Eye, con quel riff lancinante e la performance tesa, violenta, travolgente di tutta la band.

L’articolo-fiume di Lester Bangs

Il 20 luglio 1970 la Elektra mette in commercio l’antipasto con cui stuzzicare l’appetito per l’album: si tratta del 45 giri Down On The Street/I Feel Alright (1970) con numero di catalogo EKM-45695 – peraltro è forse l’ultimo disco Elektra a portare il logo stilizzato con la grande lettera “E”.
Quando finalmente l’album giunge sul mercato, «Creem» è una delle prime riviste a recensirlo.

È novembre e a parlarne è nientemeno che Lester Bangs, con un articolo-fiume in due parti, da una trentina di cartelle. Bangs col suo stile pieno di deviazioni, parentesi, tangenti e divagazioni afferma perentoriamente la natura epocale dell’album: «È davvero il disco più sfrenato e grezzo che si sia mai visto, ma ogni canzone possiede un senso intuitivo del gusto che la rende immediata e sensata […]. Fun House è uno di quei rari dischi che non si ferma mai abbastanza a lungo da riuscire a cristallizzarsi in ciò che sembrava prima. Non sempre è di accesso immediato, potrebbe servire un po’ di tempo per entrarci, ma è tempo speso bene. Perché il rumore ideato e gestito bene non è affatto rumore, ma musica».

Come spesso accade nella storia del rock, la risposta del mercato all’uscita di Fun House non è adeguata. E nonostante la caratura il disco passa quasi inosservato, lastricando – di fatto – la via verso un rapido declino delle fortune degli Stooges, che dal canto loro mettono il proverbiale carico da novanta invischiandosi sempre più pesantemente in storie di droga e dipendenze varie.
Sarà solo la storia a rivalutare Fun House e, ad anni di distanza dall’uscita, a eleggerlo pietra miliare del proto-punk e non solo.