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Sono passati trent’anni dall’album di debutto degli Stone Roses, un autentico capolavoro che la band non è mai più riuscita a eguagliare. Un disco che, però, avrebbe potuto essere molto diverso da quello che è. Ne abbiamo parlato con John Leckie e Peter Hook, che si sono contesi la produzione di questa band scintillante e dal presente ancora travagliato

[di John Earls – articolo integrale pubblicato su Vinyl n.10]

Nel 1988 gli Stone Roses stanno per registrare il loro primo album e hanno già cambiato tre diversi produttori per i loro primi tre singoli. Pubblicato nel 1985, il loro debutto a 45 giri, So Young, risale ai tempi in cui la band è ancora un quintetto, con Pete Garner al basso e un chitarrista in più, Andy Couzens.
So Young è prodotto da Martin Hannett. Con altri gruppi di Manchester come i Joy Division e, in seguito, gli Happy Mondays, Hannett ha fatto miracoli, ma il suo suono minaccioso non si addice agli Stone Roses.

Quando, nel 1987, esce Sally Cinnamon, Couzens se ne è già andato e la band è diventata un quartetto.
Il brano è pubblicato dalla Revolver e registrato al The Cottage di Macclesfield, uno studio fondato da Ian Curtis, e prodotto dalla stessa band insieme a Simon Machan, l’allora compagno della vedova di Curtis, Deborah.
È solo quando Mani rimpiazza Garner al basso, nell’autunno del 1987, che gli Stone Roses sono finalmente pronti. Sono passati tre anni dalla loro prima gig.

Ora in possesso di una delle migliori sezioni ritmiche di rock’n’roll, all’inizio del 1988 la band registra Elephant Stone – prodotto da Peter Hook, bassista dei Joy Division e successivamente dei New Order – che dà inizio alla loro epoca classica. Hook è diventato amico del manager della band, Gareth Evans, ai tempi in cui insieme a Bernard Sumner, il chitarrista dei Joy Division, frequenta l’International, il club che Evans possiede a Manchester: «Gareth era, anzi è, completamente pazzo», dice Hook. «Mi dava otto lattine di Red Stripe, una bottiglia di Pernod per Bernard e una bottiglia di succo d’arancia… e poi spariva, non riuscivi mai a parlargli».

Durante una rara chiacchierata, però, Hook ne approfitta per esprimergli la sua voglia di produrre gli Stone Roses. «Con Simon non aveva funzionato, tanto che Sally Cinnamon se l’erano prodotta da soli. A quel punto avevo solo voglia di produrre qualcuno, ero innamorato della musica e i Roses erano una grande band, andavano fortissimo ed erano matti, tanto quanto il loro manager».

Pensando alle sessioni di Elephant Stone, Hook le definisce “brillanti”, nonostante le interruzioni di Evans: «Un giorno ha pure finto di essere Mani», ride Hook. «Un’interpretazione tremenda, non sapeva nemmeno prenderlo in mano il basso, ma nonostante questo la band ha voluto che continuassimo a suonare… Lo hanno massacrato per tutto il tempo, ma senza cattiveria». Il problema maggiore è quando Reni chiede di cantare al posto di Ian Brown: «Reni pensa sempre di avere ragione, è fatto così».

Come cantante, in effetti, è migliore, ammette Hook, ma «con Ian non è questione di perfezione tecnica, lui ha feeling, anima. Ian, come Ian Curtis, è rimasto fedele all’etica del punk: tutti possono cantare, a patto che sentano davvero quello che stanno cantando. Rispetto a ciò che canta, Ian è sincero. Capisce che ciò che conta non è come fai qualcosa, ma il fatto che decidi di farlo e lo fai».

Lo studio per la registrazione di Elephant Stone è pagato dal boss della Rough Trade, Geoff Travis, che vuole mettere la band sotto contratto. All’epoca gli Stone Roses sono senza casa discografica e sono finanziati dal loro manager. «Chiaramente Gareth li adorava, e avrebbe fatto qualsiasi cosa per loro», dice Hook. «Era un vero appassionato di musica e, in un certo senso, gli Stone Roses sono stati fortunati a incontrarlo, perché non era proprio il classico manager. Gareth, però, è riuscito nell’impresa di creare loro una carriera… per poi distruggerla».

[continua con la seconda parte sabato 2 / foto Facebook @thestoneroses]