Condividi su

Steve Hackett, ex chitarrista dei Genesis, sempre alla ricerca di emozioni da condividere con i suoi fan, ha appena pubblicato At The Edge Of Light (Inside Out Music). Lo abbiamo intervistato per farci raccontare la sua carriera, le sue influenze principali e che cosa vuol dire aver inventato il prog inglese.

di Guido Bellachioma
intervista integrale pubblicata su Vinyl n.7 (marzo 2019)
[foto: Dave Dyet – licenza CC BY-NC 2.0]

Nelle ultime stagioni Stephen Richard Hackett (12 febbraio 1950, Londra) ha ritrovato la voglia di musica che lo contraddistingueva sin dagli anni ’70. Infatti è stato il primo dei Genesis a incidere un album solista, l’eccellente Voyage of the Acolyte nell’ottobre 1975, con Phil Collins e Mike Rutherford. Il tutto avveniva mentre il gruppo doveva metabolizzare l’abbandono di Peter Gabriel, avvenuto dopo il tour promozionale di The Lamb Lies Down on Broadway. Nel 1975 i Genesis, ormai stelle di prima grandezza, nel nostro Paese suonarono solo a Torino il 24 marzo, dopo l’annullamento delle altre date per problemi di ordine pubblico. La delusione tra gli appassionati fu enorme perché l’Italia li aveva acclamati, ben prima dell’Inghilterra, sin dal tour di esordio nel 1972. Quello di Torino fu l’ultimo concerto italiano di Hackett con i Genesis.

Tony Banks, Collins e Rutherford nella seconda parte del 1975 iniziarono a pensare al nuovo album, mentre Steve era ancora impegnato ai missaggi del suo. Successivamente vennero raggiunti dal chitarrista. Nel febbraio del 1976 uscì A Trick of the Tail ma la storia di Steve con i Genesis era ormai agli sgoccioli, e la fine arrivò con il bellissimo Wind & Wuthering (dicembre 1976). Ormai Hackett aveva assaggiato la libertà artistica: per sua stessa ammissione gli piaceva la gestione condivisa ma, evidentemente, non in una posizione troppo subordinata.

Come ricordi la tua decisione di continuare senza i Genesis dopo il 1976?
Ho preferito uscire dai Genesis per sviluppare le mie idee. Il gruppo aveva funzionato fino a quel momento, ma io volevo essere autonomo. Desideravo persino la libertà di sbagliare, altrimenti non sarei stato felice e la mia musica avrebbe perso l’anima. Secondo me i Genesis ormai avevano dato il massimo artisticamente. Se l’obiettivo principale per chi fa musica è dare vita a qualcosa di nuovo, ed è quello che penso, non è importante arrivare al primo posto in classifica ma avere anche altri riscontri da parte del pubblico: continuare a sperimentare.

Come sono nati il Genesis Revisited Tour 2019 e i due volumi di Genesis Revisited I e II?
Con i due volumi di questo progetto ho voluto rivendicare il mio essere Genesis. Ero molto orgoglioso del mio lavoro nella band, sia compositivo sia esecutivo. Volevo effettuare alcune modifiche perché sentivo che la nostra musica era adatta anche per una tela sonora più ampia. Proprio per questo ho usato la Royal Philharmonic Orchestra nel primo (2006), d’altronde il nostro spirito era spesso orchestrale. Qualche anno dopo ho pensato che c’erano così tante grandi canzoni dei Genesis non incluse nel primo disco che ho voluto assemblare un nuovo capitolo, dove ho fatto confluire l’esperienza acquisita nel corso del tempo con le nuove tecnologie. Volevo anche dare maggior passione alle parti di chitarra, se possibile, più vibrato, e rendere il suono più fluido e vivo. Ho utilizzato un notevole spiegamento di amici e musicisti per registrare; ognuno di loro ha immesso il proprio carattere e le proprie idee nelle canzoni che più amava. Molti hanno grande stima dei Genesis e questo mi rende felice. Ancora una volta ho utilizzato gli archi ma non l’orchestra al completo, e sento che hanno migliorato l’effetto complessivo.

Come erano i tempi di Selling England by the Pound?
Ricordo con piacere i concerti nell’Italia dei primi anni ’70. La musica del gruppo tra il 1973 e il 1974 era molto accesa, forte a livello di suono e di emozioni. Mi sembrava fantastico suonare nella migliore band al mondo e davanti al pubblico italiano, estremamente ricettivo. Selling England era il mio album preferito dei Genesis, in cui avvertivo che il suonare sincero era importante quanto le canzoni. E la penso così ancora oggi. L’album ha influenzato molti artisti rock, pop, jazz: ha una valenza quasi universale.

È vero che nel tuo nuovo disco si sente l’influenza anche degli Yes?
Quando è uscito il primo video del nuovo album, Under The Eye Of The Sun, qualcuno ha detto che ricordava gli Yes, soprattutto per l’armonia vocale mia e di Amanda Lehmann. Un critico inglese ha scomodato persino Crosby, Stills & Nash (senza citare Young, chissà perché?). In effetti può evocare lo stile androgino di Jon Anderson, sui dischi supportato da Chris Squire, ma entrambi non hanno mai fatto mistero di amare gli impasti vocali di CSN&Y. Questo è dimostrato dalle cover incluse nei primi due album degli Yes: I See You dei Byrds in Fifth Dimension (1966, firmata da David Crosby e Roger McGuinn) e Everydays dei Buffalo Springfield in Again (1967, scritta da Stephen Stills).

[Vai alla seconda parte]