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Steve Hackett, ex chitarrista dei Genesis, sempre alla ricerca di emozioni da condividere con i suoi fan, ha appena pubblicato At The Edge Of Light (Inside Out Music). Lo abbiamo intervistato per farci raccontare la sua carriera, le sue influenze principali e che cosa vuol dire aver inventato il prog inglese.

di Guido Bellachioma
intervista integrale pubblicata su Vinyl n.7 (marzo 2019)

[Continua da Il favoloso mondo di Steve Hackett – pt. 1 di 2]

Non hai mai pensato di diventare il chitarrista degli Yes?
Chris Squire una volta mi ha chiesto seriamente di unirmi agli Yes, a conferma della stima reciproca. Sono stato estremamente lusingato per circa cinque minuti perché avrei potuto scrivere sul mio curriculum: “chitarrista dei Genesis e degli Yes!”. Ma altri chitarristi erano più adatti a quel ruolo. E io avevo la mia band, e non potevo né volevo ricominciare dal punto in cui avevo lasciato i Genesis.

Quali sono i punti in comune tra Genesis e Yes?
Le due band avevano più punti di contatto che differenze. In entrambe suonavano grandi musicisti, capaci di produrre bene la propria musica, oltre a possedere una visione aperta che li portava a saper cambiare mantenendo la propria identità: almeno per un lungo periodo della propria esistenza. Ho adorato il periodo meno progressivo degli Yes, che ha prodotto grandi album come 90125 (1983), e ne ho condiviso più volte la strada a livello personale. Con Steve Howe ho incrociato la chitarra nei GTR (album omonimo del 1985) e mi sono divertito in modo rilassato. Stessa cosa ho fatto nel 1973 con Peter Banks, chitarrista originale degli Yes, e ho suonato dal vivo con Rick Wakeman. Ricordo che anche Phil Collins era un fan degli Yes.

Come ti sei trovato in Italia ieri e oggi?
Da solista sono stato per la prima volta in Italia per il tour promozionale di Defector nel 1980. Il pubblico era davvero caloroso, anche se io prima avevo paura che rispetto ai Genesis ci fosse meno trasporto. L’anno seguente, a Napoli, per un concerto all’aperto c’erano 20.000 persone quando ha cominciato a piovere: l’energia della gente, che non voleva andar via, mi ha permesso di andare avanti. Dell’Italia mi piace praticamente tutto: il cibo, la storia, l’architettura, i musicisti (con alcuni collaboro), il sole, ma soprattutto l’affetto delle persone: i fan italiani mi salutano come un amico di lunga data. Il vostro Paese è unico e fuori dal tempo: se dovessi decidere di andare a vivere fuori dall’Inghilterra verrei in Italia… e non dico questa cosa in ogni intervista.

Parlaci del tuo ultimo album con i Genesis, Wind & Wuthering.
Sono sicuro che Wind & Wuthering è destinato a diventare uno degli album migliori nella storia del rock: i fan mi stanno dando ragione, non sono solo io a pensarla così. Ho cercato di rivalutarlo, suonandolo il più possibile dal vivo. Voglio permettere al pubblico di riappropriarsi di queste canzoni. Una volta Andrés Segovia, forse il più popolare chitarrista classico di sempre, disse della musica del compositore Enrique Granados, che lui suonava alla chitarra: «È un modo per restituire al pubblico un pezzo dell’anima della Spagna». Io cerco di fare la stessa cosa.

Parlaci di Peter Gabriel e di come hai accolto il suo primo disco omonimo nel 1977.
Ricordo che ho ascoltato quel disco quando i Genesis erano in viaggio verso gli Stati Uniti per il tour di Wind & Wuthering. Lo abbiamo ascoltato insieme su un impianto con degli auricolari condivisi. Ciò che notai più di ogni altra cosa fu che le linee vocali erano state registrate magistralmente dal produttore Bob Ezrin. Si percepiva la maggiore maturità, che aveva contribuito ad alzare il livello qualitativo di tutto il resto. Ovviamente c’erano degli aspetti che rimandavano a ciò che Peter aveva fatto con noi. Per esempio Moribund The Burgermeister mi ricordava Get ’Em Out By Friday. Perché? Per l’umorismo evidente e per l’influenza di Dickens e di Gilbert & Sullivan. Ma c’era da aspettarselo. Mi sarei meravigliato se avesse pubblicato un disco completamente alieno dal passato. Al tempo stesso, CAR suonava indiscutibilmente come un album solista. Avvertivi come Peter fosse riuscito a trovare l’ispirazione, sviluppandola in un modo che non sarebbe stato possibile nei Genesis, dato che in un gruppo devi prendere decisioni all’unanimità. Ma adesso lui stava creando la sua musica, ed era libero di andare nella direzione che riteneva migliore.

La tua chitarra preferita è sempre stata una Gibson?
Amo il suono delle chitarre elettriche Gibson. Con una Les Paul Gold Top del 1957 ho suonato uno degli assolo più belli della mia vita, quello di Firth of Fifth su Selling England by the Pound, oltre che utilizzare la sua versatilità per ottenere il massimo su Dancing with the Moonlit Knight, sempre sullo stesso album. Quando ho iniziato con i Genesis avevo due Les Paul Custom, che poi mi hanno rubato a due settimane di distanza l’una dall’altra. A Clapton nel 1966 è andata peggio: gli fu sottratta dallo studio la Les Paul Standard con cui aveva appena registrato l’album Bluesbreakers insieme a John Mayall. Era uno strumento leggendario perché utilizzata in un lavoro epocale per il blues dell’epoca.

Da chitarrista, chi era invece il tuo tastierista preferito?
Amavo lo stile di Keith Emerson. La sua influenza è stata fondamentale per un’intera generazione di tastieristi. Aveva una tecnica sorprendente che, unita alle doti di showman, gli ha permesso di mettere le tastiere al centro della scena. Ha dimostrato che il tastierista non doveva per forza stare seduto e suonare placidamente in un angolo. Aveva stile e sapeva tenere bene il palco, potevi ascoltarlo ad occhi aperti e il risultato era comunque straordinario. Ha lanciato agli altri un guanto di sfida e pochi hanno saputo raccoglierlo, perché dal punto di vista scenico nessuno lo ha mai eguagliato. A livello personale Keith ha fatto moltissimo per i Genesis quando hanno avuto bisogno di aiuto. All’epoca scrisse una buona recensione del nostro Nursery Cryme sul settimanale «Melody Maker»: inutile dire che la cosa per noi ha fatto davvero la differenza.

[foto: Dave Dyet – licenza CC BY-NC 2.0]