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C’erano una volta gli Screaming Trees, il grunge e Seattle… tre ingredienti che mediamente sono uniti in maniera automatica nei pensieri dell’ascoltatore tipo, ma che snocciolati così, senza un’analisi e una contestualizzazione più puntuale, portano a un unico risultato: un bel minestrone in cui non si distinguono i sapori e si lanciano tutti gli avanzi del frigo per non buttarli.

E invece, cari lettori, qui siamo di fronte a un vero piatto da gourmet, perché questi quattro giovanotti dello stato di Washington, proprio mentre molti dei loro coetanei che infestano le cantine e i garage dell’area di Seattle riscoprono gli Stooges, i Black Sabbath e gli Zeppelin, si rifanno a modo loro alla psichedelia e al garage rock californiano anni Sessanta. Una buona definizione dell’essenza del loro sound viene data da Sounds nel 1989, che li descrive portatori di un “eclettismo nato dal matrimonio tra la prima generazione della psichedelia di Syd Barrett e dei 13th Floor Elevators, l’hard rock primordiale di Jimi Hendrix e il verbo del rock americano anni Ottanta di Black Flag e Husker Du“.

La storia degli Screaming Trees comincia a quasi 200 chilometri da Seattle, più precisamente nella cittadina di Ellensburg (20.000 abitanti a tenersi larghi). Qui, complice la più stereotipata e catafratta noia provinciale, quattro ragazzi ventenni o giù di lì decidono di far qualcosa per passare il loro tempo in maniera un po’ più divertente, magari assecondando la comune passione per la musica.

Gary Lee Conner (chitarrista solista) ricorda: “Era il 1985, io avevo 22 anni: mio fratello minore Van aveva 18 anni e insieme al suo migliore amico Mark Pickerel (che ne aveva 17) decise di mettere su una band con un conoscente che frequentava la stessa scuola, Mark Lanegan (20 anni). Van, Pickerel ed io avevamo già suonato assieme in qualche gruppo di cover. Lanegan invece era un batterista, ma aveva cantato una volta in un gruppo, a una festa, e così decise che sarebbe stato il cantante della band“. Nel caso qualcuno se lo stesse chiedendo, la risposta è sì: stiamo parlando di quel Mark Lanegan che pensate.

Inizialmente Gary Lee viene estromesso dal fratello, che non lo vuole nel gruppo per qualche litigio non ben definito di quelli che accadono nelle migliori famiglie, ma il provvidenziale intervento della madre mette a posto le cose. La leggenda narra che la signora Conner abbia minacciato il giovane Van di non farlo più uscire nei finesettimana se non avesse accolto il fratello nel gruppo… e la cosa funziona alla grande. Gary Lee attacca il jack all’amplificatore e non lo staccherà per i successivi 15 anni.

Benedetta noia e – paradossalmente – benedetto quel piccolo inferno che doveva essere Ellensburg a metà anni Ottanta… un posto in cui c’è un solo negozio che vende qualche disco decente (Ace Records), nessun club in cui si suona musica accettabile, un paio di cinema e un po’ di studenti del college locale. Van Conner descrive così la sua cittadina nel volume Grunge, di Claudio Todesco, edito da Tsunami: “Era una città totalmente, dannatamente redneck”.

Crema, bandiera nera e quattro piste

Gli inizi sono quasi tragicomici, come il siparietto della mamma citato poco sopra insegna, con tanto di prove nella cameretta di Gary Lee (poi spostate nel retro del videonoleggio gestito dalla famiglia Conner), che spiega: “Non avevamo idea di cosa suonare tutti assieme e alla fine ci trovammo a fare Sunshine Of Your Love dei Cream e un po’ di pezzi dei Black Flag“.

Si tratta di cover, quindi, ma è chiaro che l’indirizzo (per quanto bizzarro) è in qualche modo definito: un lubrico accoppiamento di acid rock degli anni Sessanta con un atteggiamento punk contemporaneo, figlio della scena floridissima che gravita intorno a etichette come la SST e la New Alliance. Del resto Gary Lee e Lanegan sono cresciuti musicalmente cibandosi di album di seconda mano comprati a pochi centesimi nelle garage sale dei concittadini bisognosi di quattrini.

Gary Lee Conner: “Sono nato nel 1962 e quando avevo 12 o 13 anni ho iniziato ad andare ai mercatini delle pulci con mia madre ogni fine settimana. Era la metà degli anni Settanta e sembrava proprio che tutti volessero sbarazzarsi delle loro vecchie collezioni di vinili. Poi Ace Records era un buon negozio: aveva tanta roba anni Sessanta e primi Settanta che era rimasta invenduta, quindi ho iniziato a prenderne un bel po’ quando mi trovavo qualche soldo in tasca, alle superiori. Da Ace c’erano sempre un paio di copie dei dischi che a me sembravano fighi e dopo qualche tempo ho scoperto che Mark Lanegan si era comprato molte delle seconde copie degli stessi album che mi ero preso io”.

Gary Lee da tempo, nella solitudine della sua stanza, pasticcia con un vecchio registratore a quattro piste, un Fostex X-15, e quando fa ascoltare a Lanegan gli embrioni di brani che ha registrato scocca la scintilla: basta cover, bisogna lavorare su materiale originale.

Gary Lee: “Nel 1985, a Ellensburg, l’idea di un gruppo locale che facesse musica propria era davvero estrema. Gli unici posti per suonare in città erano il Ranch Tavern, l’Holiday Inn o i balli scolastici: e accettavano tassativamente solo i gruppi di cover… eravamo davvero fuori di testa! Imparammo un po’ dei pezzi che avevo scritto, ne componemmo qualcun altro insieme. […] Poi un giorno io e Mark trovammo un articolo su Spin firmato da Geza X che aveva un titolo tipo ‘Come pubblicare un disco’. Leggendolo decidemmo di farne uno nostro”.

Sull’onda dell’entusiasmo viene prenotato un weekend al Velvetone Studio in cui lavora Steve Fisk (che all’epoca ha già un discreto curriculum da musicista e produttore) e dalle session scaturiscono un pugno di brani, in pratica un demo tape. “Non sapevamo cosa cavolo stessimo facendo”, ricorda Gary Lee, “comunque non andò male. Incidemmo sette o otto pezzi in tre giorni”… ma c’è un dettaglio non trascurabile da sistemare al più presto: il gruppo non ha un nome.

Treble booster?

La leggenda, peraltro per anni alimentata dal gruppo stesso, narra che la denominazione sia stata scelta per via di un effetto per chitarra prodotto dalla mitica Electro-Harmonix, lo Screaming Tree: si tratta di un pedalino treble booster usato per pompare le frequenze medie e alte. In realtà le cose non vanno esattamente così e il nome nasce da una chiacchierata scherzosa per decidere come chiamare la band; qualcuno suggerisce Screaming Freaks, da cui subito arriva Screaming Trees, senza che nessuno dei musicisti conosca l’esistenza del pedale della Electro-Harmonix.

[di Andrea Valentini – continua con la parte 2 – foto di Rick Goldman – licenza CC nd 2.0]