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Ho un piano è il titolo del suo nuovo album e anche la sua dichiarazione di intenti. Perché la musica può essere ancora ricerca

[di Silvia Gianatti – articolo integrale pubblicato su Vinyl n.13]

Mentre in Francia e in Germania lo invitano nelle più grandi manifestazioni jazz, in Italia continua a essere posizionato nel pop. Raffinato certo, ma senza dar spazio a quella che è la sua vera identità di cantautore al piano che narra storie, lasciando che siano i suoni, le ritmiche e spesso anche le improvvisazioni a prevalere. Raphael Gualazzi, trentottenne nato a Urbino, nel suo nuovo lavoro Ho un piano va alla ricerca in undici brani dei suoni a cui si è avvicinato negli ultimi quattro anni, senza mai togliere dal centro dell’attenzione le sue mani sul pianoforte.

L’intervista

Torni cambiato?
È cambiato l’ascolto della musica e la sua fruizione. Mi sono reso conto che il mondo musicale stava diventando diverso e per questo sono andato a cercare commistioni con produttori di diverse scuole e approcci. Da quello che si occupa di urban a quello più vintage. Quello elettronico e quello legato ai sapori r&b di fine anni ’80.

Come ti vedi in questo nuovo panorama?
Il mio percorso è sempre stato crossover. Devo far conto con una realtà italiana dove la musica jazz e blues dei primi del Novecento che mi ha ispirato non ha molto spazio in Italia, se non in luoghi piccoli o a orari molto scomodi. Anche la scena live non è seguita granché. In Francia, Germania e Inghilterra sono percepito come jazzista, in Italia sono un artista pop influenzato dal jazz e non essendoci un canale di diffusione di questo tipo di cultura devo spiegarmi attraverso la commistione di determinati generi. Però funziona e così posso trasmettere nei live i miei amori più grandi o rivisitare Louis Armstrong o Bessie Smith e altri autori che mi interessano.

Che impatto ha avuto l’utilizzo della musica elettronica in questo lavoro?
Ho scoperto un sacco di bellezza anche in questo genere. Nei sintetizzatori e nella creazione di una dinamica della composizione attraverso l’utilizzo di tastiere elettroniche, dal Prophet a certi Moog. La composizione con elementi organici, intesi come acustici, reali, da far giocare con altri elementi che hanno parametri diversi è stato come vedere una danza tra la natura e la sua imitazione. La musica elettronica è l’imitazione della natura.

[continua con la seconda parte]