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Una chiacchierata con Franz Di Cioccio e Patrick Djivas, anime storiche della PFM, per scoprire il senso dell’imperfezione come misura della bellezza

[di Valentina Giampieri – intervista integrale pubblicata su Vinyl n.9 – continua da PFM: la passione per la libertà – pt. 1/2]

Innanzitutto libertà

Franz Di Cioccio
«Il nostro pubblico sa che dalla PFM può aspettarsi sempre qualcosa di diverso: facciamo il tour in cui suoniamo De André, poi ripartiamo per quello con i nostri classici e ancora facciamo Stati di immaginazione, che è una performance musicale multimediale. Quando registriamo, come anche dal vivo, dobbiamo innanzitutto godere. Abbiamo suonato in Canada, in Sudamerica, in Giappone, ma sempre la nostra musica, non quello che chiedeva il pubblico. La cosa in assoluto più divertente è l’interplay, l’interscambio continuo. Lanciare un tema e poi suonarci sopra improvvisando. Anche i nostri classici non sono mai uguali a se stessi: ci lavoriamo dentro, poi usciamo e rientriamo di nuovo. Credo sia questo il segreto della nostra giovinezza, in questo modo è impossibile annoiarsi. Con Fabrizio De André lavoravamo in maniera molto simile. Quando suonava, lui chiedeva solo il ritorno della sua voce e della sua chitarra – soprattutto la batteria gli dava fastidio, per la gioia del sottoscritto – tanto che la prima volta che è passato in studio e ha sentito l’effetto d’insieme, è rimasto sconvolto: “Belìn, ma quindi la gente sente questa roba qui? Che meraviglia!”. Chi conosce De André, sa che era un rompiballe di prima categoria. Noi però gli andavamo a genio, perché suonavamo alla nostra maniera, stando sempre dietro alla sua chitarra. Era lui a condurre la partita, ma il nostro affiatamento lo rendeva un gioco di squadra».

Patrick Djivas
«Anche in sala di registrazione nessuno ci ha mai detto cosa dovevamo fare. Da un certo punto di vista, in alcune occasioni, è stato anche un danno. Per esempio abbiamo inciso un disco jazz, Jet Lag, quando eravamo sul punto di  esplodere in America, dove tutti, però,  si aspettavano la PFM “italiana”, per come l’avevano già catalogata. Quella volta ci siamo un po’ segati le gambe, però sono passati più di quarant’anni e siamo ancora qui. Probabilmente per le scelte che abbiamo fatto, sicuramente per quel tipo di mentalità».

La musica di domani

Franz Di Cioccio
«Nel futuro c’è sempre qualcosa da scoprire, ci sono la possibilità, l’intrigo. Quando abbiamo scritto Impressioni di settembre abbiamo fatto un esperimento particolare: il ritornello suonato invece che cantato. Solo perché ha fatto il botto, non è che abbiamo sfruttato la stessa idea in  altri brani. Abbiamo fatto Celebration, una sorta di tarantella rock, e poi cambiato di nuovo il genere. Scommettiamo sempre sul futuro, mai sul passato. Quando hai vissuto cinquant’anni di musica, hai un bagaglio enorme. Io sono cresciuto con Dylan, Elvis, gli Stones, poi con i Beatles e i Led Zeppelin. Dentro di me c’è tutto questo, non ho bisogno di tornare lì per trovare un’idea. Voglio cercarla nel futuro. Se resti sempre legato a uno schema, è finita. Forse dobbiamo anche un po’ più di rispetto alla musica. Credo sia importante riappropriarsi del tempo e dello spazio per l’ascolto. In questo il vinile ha un ruolo fondamentale. La PFM non ne ha mai saltato uno. Al di là dell’oggetto in sé, che ha comunque un valore inestimabile, prendere un disco, spolverarlo, metterlo sul piatto e appoggiare delicatamente la puntina, stando attenti a non rigarlo, significa non avere fretta. È come la cerimonia del tè in Giappone: ci mettono mezz’ora per prepararlo, ma quella mezz’ora ha un senso e ti rimane, perché è densa di emozioni».

Patrick Djivas
«L’innovazione però non va demonizzata, in molti casi ci ha aiutato. I primi anni in cui registravamo, in studio si riascoltavano i pezzi con delle casse enormi, a volumi assurdi. In America sembrava avessimo fatto un disco pazzesco, lo stesso disco lo ascoltavamo in Italia e faceva schifo. Poi negli anni ’80 sono arrivate le casse Yamaha piccole ed è stata una salvezza. Erano lineari, non aggiungevano nulla: quello che suonava bene da quelle, suonava bene in qualsiasi impianto. Sempre a proposito di innovazione, la PFM ha avuto il primo moog che è arrivato in Italia. L’abbiamo usato con consapevolezza però, dopo che avevamo provato tutti gli strumenti e ci eravamo resi conto che quel tipo di suono, in quel contesto, pur uscendo da uno strumento “sintetico”, scaldava molto di più il pezzo. Le onde che produceva, davano più emozioni. Ecco quello che serve davvero alla musica oggi: un mix di tecnologia e passione».