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Alla riscoperta di Nick Drake. Un artista originale, un’anima fragile, un cantautore di culto.

di Jonathan Wright
testo integrale pubblicato su Vinyl n.8 (maggio 2019)

[continua da Nick Drake: musica di un altro mondo – pt. 1/4]

La linea d’ombra

Nel luglio del 1968 Drake inizia le registrazioni del suo album di debutto, Five Leaves Left, insieme a Boyd e a John Wood, come ingegnere del suono, presso il Sound Techniques di Londra.
In White Bicycles, Boyd racconta che nell’approccio si era ispirato in parte a quanto fatto da John Simon per Songs of Leonard Cohen (1967): «Simon aveva arricchito le tracce con cori, archi e altri strumenti per sottolineare la voce di Cohen senza mai sovrastarla o scadere nel commerciale».

Alla fine l’approccio risulta corretto, ma solo dopo che Boyd ha scartato tutti gli arrangiamenti d’archi di Richard Hewson («professionali, mediocri e vagamente inquietanti») per permettere a Drake di lavorare con Robert Kirby, un suo vecchio amico di Cambridge.
La sola eccezione è River Man, in cui Kirby cede il passo al compositore e direttore Harry Robinson (diventato celebre per le colonne sonore della Hammer Film Productions), perché timoroso di non riuscire a creare il suono che Drake desidera.

Come detto, la Island pubblica Five Leaves Left nel luglio del 1969.
Anche se John Peel garantisce i passaggi radiofonici, l’album vende poco. Non lo aiuta il fatto che Drake, sempre più in difficoltà nel gestire le relazioni sociali, sia praticamente inservibile per la promozione del disco, tanto da concedere una sola intervista alla stampa di settore: il fortunato giornalista è Jerry Gilbert di «Sounds», ma è già il 1971.

La difficoltà dei concerti

I concerti, poi, sono spesso una vera tortura.
Il punto più basso è una serata in un club di Smethwick, vicino a Birmingham, dove il pubblico, palesemente disinteressato, lo ignora. «Quella serata l’ha distrutto», confesserà a BBC Radio One il cantautore John Martyn, suo amico intimo.
In un’altra occasione, mentre suona di supporto a Ralph McTell all’Ewell Technical College, Drake abbandona il palco nel bel mezzo di Fruit Tree. «Doveva essere successo qualcosa di tremendo», chioserà McTell.

John Parish, produttore e storico collaboratore di PJ Harvey, sottolinea un’ulteriore complicazione legata allo stile di Drake: privo della tecnologia e di un set di strumenti intercambiabili, oggi diventati uno standard per qualsiasi professionista, Nick deve fermarsi spesso per cambiare accordatura della chitarra.
«Non aiutava certo a stabilire un contatto con il pubblico, soprattutto con ascoltatori distratti e difficili da conquistare». Comunque sia, alla fine, tutto ciò si ripercuote emotivamente su Nick, che inizia a ritrarsi sempre più in se stesso, passando lunghe ore solitarie nella sua stanza di Hampstead.

Secondo Boyd, «Nick aveva sempre fumato hashish, ma allora divenne parte di una routine fissa delle sue giornate: suonava la chitarra, fumava spinelli e, quando aveva fame, usciva per andare a mangiare del curry».
Nonostante tutto Boyd inizia a pianificare la registrazione di un secondo album.

La collaborazione con John Cale

In Bryter Layter, pubblicato nel 1971, suona anche John Cale, che Boyd ha conosciuto l’anno precedente durante la lavorazione di Desertshore, il terzo album solista di Nico.
Quando Boyd gli fa ascoltare la musica di Drake, Cale ha una reazione istantanea: «Ma chi diavolo è questo tizio? Devo assolutamente incontrarlo! Dov’è? Voglio dire, dov’è adesso!?».

Cale suonerà così in Fly e Northern Sky, trascinando Drake con la sua energia.
Tuttavia, Bryter Layter, dal punto di vista commerciale, è un altro flop clamoroso e Boyd, che per tanto tempo ha sostenuto e promosso il giovane artista, torna negli Stati Uniti.
Nel 1971 la famiglia di Nick, sempre più preoccupata, lo convince a consultare uno psichiatra. Gli vengono prescritti antidepressivi, ma lui continua nel frattempo a fumare ingenti quantità di cannabis e, secondo alcune testimonianze, inizia a mostrare i primi segni di una psicosi.

L’ultima luna

Prima, però, deve arrivare l’ultimo, grande capitolo della vita musicale di Drake, il suo capolavoro, Pink Moon, realizzato in un periodo sinistramente affascinante della sua breve vita.
Per quanto amante della solitudine, da giovane Nick era stato spesso circondato da tante persone: la sua famiglia, i compagni di scuola, gli amici dell’università, i musicisti del suo seguito adorante.

Eppure, un osservatore esterno non può non notare come, al primo momento di crisi, tutta questa estesa rete di relazioni sociali si sia trovata impotente di fronte all’erculeo compito di sostenere quest’anima talentuosa ma fragile, quasi un triste presagio della tragedia imminente. Se solo le cose fossero andate diversamente.

Come visione fugace di quello che avrebbe potuto essere basta ricordare il concerto del settembre del 1969 alla Royal Festival Hall, dove Drake fa da spalla ai Fairport Convention, impegnati in un ritorno sulle scene dopo il tremendo incidente con il bus della band in cui ha perso la vita il batterista Martin Lamble.
In quella notte carica di emozione, ricorda Boyd, il pubblico appare attento, rispettoso, anche nei confronti di un artista per lo più sconosciuto: «Sentivo l’affetto del pubblico riversarsi sul palco».

Boyd lo rispedisce fuori, sotto i riflettori, per un ultimo bis e, fattosi trasportare dall’emozione del momento, osa pensare che forse, in fondo, non importa che Drake non sappia parlare al pubblico e che, forse, può davvero avere davanti a sé «una carriera». Forse. Se solo le cose fossero andate diversamente.

[continua sabato 15 giugno con la terza parte]