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Pionieri del punk e dell’ impegno politico in musica, gli MC5 sono stati una delle band più influenti e rivalutate della storia del rock. Abbiamo incontrato Wayne Kramer, chitarrista, che oggi è in tour con una nuova band per celebrare il 50° anniversario del mitico album d’esordio Kick Out the Jams, un vinile imprescindibile nella vostra collezione.  Il lupo ha perso qualche pelo, ma non i vizi…

di Sean Egan
articolo pubblicato su Vinyl n. 5 (gennaio 2019)

È il dicembre del 1968 e gli MC5 stanno incendiando il pubblico del Fillmore East con una di quelle performance esaltanti che li hanno portati dai bassifondi della scena musicale di Detroit fino alla cover di Rolling Stone.

Alla fine del concerto, mentre escono dal teatro, si scontrano però con una realtà in netto contrasto con il selvaggio entusiasmo con cui solitamente sono accolti. Un gruppo di attivisti locali, gli East Village Motherfuckers, hanno rastrellato alcune copie omaggio di Kick Out the Jams, il loro singolo di imminente pubblicazione, e le stanno simbolicamente fracassando sulle pinne posteriori delle Cadillac mandate dalla casa discografica a prelevare la band.

È una vista che a Wayne Kramer, il chitarrista degli MC5, richiama immediatamente alla mente i dissapori interni che stanno dilaniando il gruppo. Incarnare con entusiasmo lo spirito libertario dell’epoca o diventare una band ricca e di successo? «Ho pensato, “Vaff…, è surreale” », ricorda Kramer. «Era uno degli aspetti più problematici della band: venire attaccati senza pietà dall’estrema sinistra, perché non eravamo abbastanza rivoluzionari. Era dura da digerire».

Hometown boys

E dire che, nei primi anni ’60, i membri degli MC5 avevano un’idea ancor più convenzionale di che cosa volesse dire essere rockstar. Kramer aveva frequentato il liceo con il cantante Rob Tyner (vero cognome Derminer) e il chitarrista Fred “Sonic” Smith. All’inizio ognuno di loro aveva un suo gruppo, ma dopo il diploma si erano uniti e, raccogliendo il bassista Michael Davis e il batterista Dennis Thompson, avevano formato gli MC5. Che è l’acronimo di Motor City Five, ovvero “i cinque della Motor City”, in omaggio a Detroit, loro città natale.

La loro trasformazione da anonima band della scena cittadina ad artisti politicamente impegnati si deve a un certo John Sinclair, il loro manager, ma soprattutto il fondatore del White Panther Party, un’organizzazione antirazzista impegnata non solo nell’attivismo politico, ma anche in una forma di terrorismo di basso profilo. «La sua influenza fu enorme», ricorda Kramer, «perché era in grado di esprimere razionalmente cose che io potevo solo percepire istintivamente».

Le canzoni degli MC5 «cominciarono a parlare delle cose che accadevano nel mondo in cui vivevamo», continua il chitarrista. Motor City is Burning, personale elaborazione dell’omonimo brano di John Lee Hooker che parla dei recenti tumulti razziali in città, fu, nelle parole di Kramer, il racconto di un’esperienza realmente vissuta.

The American Ruse, che sovrappone l’immagine idealizzata degli Stati Uniti a una realtà fatta di brutalità poliziesca e vuoto consumismo, «era, ed è ancora oggi, un’istantanea della vita in America». Aggiunge Kramer: «La forza degli MC5 era quella di rivolgersi direttamente ai giovani. La band viveva le medesime esperienze vissute dal suo pubblico». Certo, il loro famoso “mini manifesto” (che recitava “Dope, guns & fucking in the streets“) non era proprio l’ideale per conquistare i cuori dei moderati o per convincere chi la pensava in maniera diversa.

Una retorica del genere non era controproducente per il successo del gruppo? «Senza dubbio, ma c’era un intento provocatorio, era questo l’obiettivo principale». Peraltro, aggiunge Kramer, la storia ha poi reso giustizia a molte delle idee della band, basti pensare alla marijuana.

Che idea!

Il primo singolo degli MC5, I Can Only Give You Everything, viene pubblicato dalla AMG Records nel 1967. È una versione più cattiva e sovraccarica di eco di un brano già proposto dai Them l’anno precedente, nell’album Them Again. Decisamente meglio il lato B, One of the Guys. «Avevamo passato un intero pomeriggio a riarrangiare un blues», ricorda Kramer, «e ci avevamo lavorato così tanto che alla fine abbiamo detto a Rob di scrivere alcuni versi, in modo da farne un brano originale. Dopo dieci minuti, torna da noi e ci dice: “Ragazzi, ho scritto una canzone di protesta!”».

Anche se non è passato alla storia come una pietra miliare del rock, il brano ha un tono anti machista decisamente insolito per l’epoca e il disco è diventato nel tempo una vera rarità, con quotazioni che superano i 500 euro (ma attenti a non confonderlo con una ristampa del 1969, che reca I Just Don’t Know sul lato B e ha, stranamente, lo stesso numero di catalogo). Le vere sorprese, però, devono ancora venire.

Nel febbraio del 1969 gli MC5 registrano l’LP di debutto, Kick Out the Jams, e lo fanno in maniera decisamente originale: dal vivo. «Pensavamo che sarebbe stato rivoluzionario», dice Kramer, «solitamente le band registravano due o tre album in studio e poi un live, ma la nostra attenzione era sempre concentrata sugli spettacoli dal vivo. Inoltre, in studio non eravamo granché. La Elektra pensò che sarebbe stato più economico ed eccitante cercare di catturare il suono della band live». Tuttavia, ammette Kramer, «se avessimo prodotto una versione in studio, probabilmente oggi faremmo parte del canone del classic rock, perché i brani sarebbero stati più adatti alle trasmissioni radiofoniche».

Successo a caro prezzo

La frase che dà il titolo all’album è ormai diventata un’espressione corrente. «Qualcuno di noi l’aveva sentita pronunciare a un concerto jazz», ricorda Kramer. «Il suo significato era qualcosa del tipo “Fatela finita!”. Così ce ne siamo impadroniti e abbiamo iniziato a gridarla alle band che ci annoiavano: “Fatela finita con questa roba o scendete dal palco!”. Eravamo giovani, aggressivi… e delle teste di cazzo».

Quello che segue è un periodo turbolento. Mentre gli MC5 iniziano ad avere problemi con l’Elektra – che alla fine decide di rescindere il contratto, nonostante sia un’etichetta nota per la sua ampiezza di vedute –, John Sinclair viene sproporzionatamente condannato a dieci anni di prigione per aver passato due spinelli a un agente di polizia sotto copertura.

Un esempio, evidente, delle pressioni cui la band è sottoposta dall’autorità costituita, cui si aggiungono, ancora più snervanti, gli attacchi da parte dei compagni di lotta più radicali. Gli MC5 riescono comunque a ottenere una nuova opportunità grazie alla Atlantic Records e si accingono così a registrare un album che, nelle loro speranze, dovrebbe mettere a tacere gli scettici. «Ero infastidito dalla severità delle critiche, perché noi sapevamo davvero suonare», ricorda con rammarico Kramer. «Per questo, ci tenevo che Back in the USA fosse un disco che suonasse bene, con l’intonazione corretta, a tempo, con una produzione di prim’ordine. Forse abbiamo esagerato un po’».

Le parole di Kramer sono indicative di come, per alcuni, l’album suoni stranamente pulito, fin troppo. Ma molti altri ne sono impressionati, tra cui, probabilmente, i Rolling Stones, che con la loro I Got the Blues, pubblicata l’anno successivo (e inclusa nell’album Sticky Fingers), sembrano infatti tributare un omaggio alla ballata degli MC5 Let Me Try.

Profeti inascoltati

Purtroppo, però, questo purissimo e godibilissimo distillato del suono e dello spirito MC5 delude le attese commerciali. Se Kick Out the Jams aveva raggiunto la trentesima posizione in classifica, Back in the USA si colloca un centinaio di posizioni più in basso.

Kramer ammette che al momento di registrare l’album successivo, High Time, regna ormai un’atmosfera da “o la va o la spacca”. Nel nuovo disco la politica tende a sparire dai testi, così come quell’egalitarismo compositivo che aveva caratterizzato gli esordi del gruppo, però «eravamo migliorati, è il nostro album migliore. Sfortunatamente la casa discografica a quel punto ci aveva abbandonato completamente, a vantaggio di quelle nuove band che avevano messo sotto contratto e che causavano meno problemi, come i Led Zeppelin e gli Allman Brothers».

Quando l’album non riesce nemmeno a entrare nella Billboard Top 200, per gli MC5 è l’inizio della fine. Si sciolgono a Capodanno del 1972 e per Kramer comincia una discesa agli inferi, fatta di droga e crimini, che lo porterà anche in prigione. Anche Davis finisce dietro le sbarre.

È proprio mentre sconta la sua condanna che Kramer viene a sapere che in Gran Bretagna è nato un movimento chiamato punk e che una delle band di maggior successo, i Clash, nel 1978 hanno realizzato un album d’esordio che, seppur in maniera molto personale, è stranamente simile per approccio e stile a Back in the USA. Addirittura, un verso della canzone Jail Guitar Doors è dedicato proprio a Kramer.

Nonostante ciò, lui stesso nega che ci sia mai stato il tentativo di riportare in vita gli MC5 approfittando di quell’improvviso ritorno, se non di popolarità, almeno di considerazione critica. «La prima volta che è venuto fuori il discorso è stato verso la fine degli anni ’80. E abbiamo rifiutato senza neanche pensarci. Personalmente non credevo che saremmo riusciti a rimetterci insieme tutti e cinque e, sinceramente, non credevo nemmeno che potesse esserci interesse da parte del pubblico».

Il futuro e oltre

Nell’agosto del 2018, dopo un processo di scrittura durato cinque o sei anni, è uscita infine l’autobiografia di Kramer, The Hard Stuff (Faber & Faber). «Non riuscivo a finirla. Mi fermavo sempre al solito punto: come concludo il libro?».

Alla fine la soluzione è arrivata, lieta e imprevista, con la nascita del primo figlio. «Diventare padre è un evento che trasforma completamente la vita… così ho pensato che fosse il finale perfetto». Chiediamo a Kramer se, in un processo di introspezione così lungo, abbia imparato qualcosa di se stesso: «L’incredibile follia di molte decisioni che ho preso. Per essere un individuo che ha sempre pensato di saperla lunga, mi sono comportato in maniera decisamente stupida».

L’anno scorso, a sei anni dalla sua scomparsa, sono state pubblicate anche le memorie, sincere fino alla brutalità, di Michael Davis (I Brought Down The MC5, Cleopatra Press). Rob Tyner e Fred Smith sono morti a poca distanza l’uno dall’altro nei primi anni ’90, mentre i rapporti tra Kramer e Dennis Thompson, l’unico altro “superstite” della band, sono tesi. Kramer lamenta il fatto che il batterista abbia più volte cambiato idea in merito alla sua partecipazione al progetto MC50, la band che Kramer ha costituito per celebrare i 50 anni di Kick Out the Jams e che dallo scorso novembre è impegnata in un tour europeo.

Quando gli chiediamo come è possibile che così tanti membri degli MC5 siano già morti, Kramer non si nasconde: «Abuso di stupefacenti… Alla fine soffrivamo tutti di un disturbo da stress post-traumatico e lo abbiamo “curato” con alcol e droga. Ci sono passato anch’io. Sono solo stato più fortunato, perché alla fine ho trovato una strada per uscire dalla dipendenza». Questo lo riporta, inevitabilmente, ai particolari dilemmi e alle difficoltà vissute dal gruppo: «Essere gli MC5 è stato traumatico e i miei compagni non hanno resistito».

[Foto: Hugh Shirley Candyside, CC-BY-SA 2.0 Generic]