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Alla riscoperta di Lucio Battisti, artista e sperimentatore

(articolo di Silvia Gianatti pubbliato su Vinyl n.11)

Mentre Battisti sbarca su Spotify, aprendosi le porte al mondo moderno, Sony pubblica, a due anni di distanza dalla prima, la seconda raccolta dei suoi grandi successi, che riprendono vita in una nuova forma, rimasterizzati dai nastri originali. Lucio Battisti Masters vol. 2, la seconda raccolta di 48 brani rimasterizzati a 24bit/192khz dai nastri originali, è il frutto di un lungo lavoro di restauro che la casa discografica pubblica, fiera della migliore definizione audio attualmente possibile. Mario Lavezzi, cantautore e produttore, Gaetano Ria, fonico romano punto di riferimento fin dagli anni ’60, e Alberto Radius, membro storico della Formula 3, ci raccontano l’uomo dietro alle canzoni, tra ricordi e aneddoti di anni che oggi appaiono incredibilmente speciali.

Che ricordi avete di Battisti, in studio?
Gaetano Ria: «Lucio non faceva entrare nessuno. Solo i suoi musicisti. Quando lavoravamo insieme avevamo un rapporto fondato sui suoni. Lui sapeva esattamente ciò che desiderava, io cercavo di interpretarlo e riprodurlo. Mogol non entrava a sentire nulla. Io facevo le basi, gli mandavo il nastrino. Lucio cantava in finto inglese lasciando alcune parole italiane di cui si innamorava o che gli suonavano bene. Chiedeva che, se non le stesse parole, rimanesse almeno la stessa sonorità. È la base che si richiede a ogni paroliere, ma non tutti ci riescono. Mogol tornava in studio a lavoro finito e veniva ad ascoltare il risultato».

E come andava?
Gaetano Ria: «Ricordo che cosa successe alla nostra prima collaborazione. Lucio desiderava muovere le mani in prima persona, fare il missaggio. Gli spiegavo come fare, gli parlavo della vibrazione che si sentiva, appoggiando le mani sulla console. Oggi non è più possibile con le nuove tecnologie, ma ai tempi, arrivava una vibrazione nel braccio che faceva capire esattamente di aver ottenuto quello che si desiderava. Amalgamare i suoni è la cosa più difficile. Mogol entrò in studio, ascoltò il suo lavoro, poi si alzò e disse: “Bella schifezza”. E nient’altro. Se ne andò. Era l’album Umanamente uomo: il sogno. Lucio mi guardò e disse: “Sai che facciamo? Dammi il nastro, per cortesia”. Lo prese e lo buttò nel secchio. E poi mi disse “Gaetano, missa tu”. Sapeva riconoscere i suoi limiti, ma non per questo si fermava. Continuava ad approfondire».

Gli piaceva imparare?
Gaetano Ria: «Si fidava. Voleva capire come venivano realizzati i suoni. Nel 1979 mi chiamò perché voleva sapere come era stato realizzato un brano di Peter Gabriel, Shock the Monkey. Per informarmi, telefonai a un ingegnere della Music Instruments a Londra. Mi disse che avevano utilizzato il sintetizzatore Firelight CMI e così me lo feci mandare. Lucio fu il primo a comprarlo, in Italia, e per due settimane non uscì di casa, perché voleva imparare a usarlo bene».
Mario Lavezzi: «Amava imparare in generale. È sempre stato appassionato di fotografia. Andavamo a Giovenzana a comprare insieme le macchine fotografiche e tutto quello che serviva per stampare le foto in camera oscura. Condividevamo questa passione, era una moda, ma in ogni caso, per lui, bisognava imparare tutto precisamente. Come quando andò a fare windsurf con Pappalardo. Imparò perfettamente. Poi si stancava e passava ad altro. Ma andava in profondità, era pignolo. Come nella musica. Se aveva in mente qualcosa andava a prenderselo, con musicisti e produttori. Cercava, finché non trovava».

[continua con la parte 2]