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Alla fine di maggio del 1968, Jimi Hendrix arriva in Italia per una serie di concerti. Renzo Chiesa, Ruggero Stefani e Luciano Regoli salgono con noi sulla macchina del tempo e ci riportano a quello storico evento

[di Guido Bellachioma – intervista integrale pubblicata su Vinyl n.8 (maggio 2019) – continua da Jimi Hendrix in Italia: il racconto di chi c’era – pt. 1 di 2]

Il racconto di Ruggero Stefani

«Con Jimi, oltre agli Experience, c’erano Bernardi, Porri e Albertino Marozzi. Lui era un personaggio che Nanni Moretti avrebbe descritto anni dopo nei suoi film: “faccio”, “mi muovo”, “giro”, “conosco”. Quella sera era riuscito a intrufolarsi come accompagnatore-interprete del gruppo perché masticava un po’ d’inglese.
Noi, come un po’ tutti i musicisti dell’epoca, lo conoscevamo bene. Mentre ci asciugavamo il sudore e cercavamo di toglierci i sorrisi ebeti dal volto, entrò di corsa in camerino dicendo: “A regà, ha detto Jimi se risonate perché je sete piaciuti un sacco”. Queste furono le parole esatte.

Risalimmo sul palco e suonammo ancora un po’. Durante questa terza esibizione della serata torna Marozzi: “A regà, Jimi ha chiesto de fa’ qualche pezzo co’ voi perché je fate veni’ voglia de sona’ ”. Si può immaginare cosa si prova a vedere un mostro sacro della musica rock avvicinarsi e salire sul palco con te, prendere la chitarra – che il nostro chitarrista gli offrì con deferenza – imbracciarla e cominciare a suonare. In uno stato di estasi, almeno per quanto mi riguarda, cominciammo a improvvisare. La chiamavano “jam session”, all’epoca. Non durò molto, giusto un paio di blues. Tornammo in camerino, dove Albertino ci raggiunse nuovamente, esordendo con il solito “A regà” e aggiungendo: “Jimi ve vole in sala con lui. Ve vole conosce”.

Al tavolo Jimi a un certo punto cominciò a parlare fittamente con Massimo Bernardi, che dopo ci comunicò che il giorno seguente dovevamo suonare nello spettacolo del Brancaccio, subito prima di Hendrix!

Nel fine settimana il Titan apriva anche il pomeriggio e non poteva rimanere senza concerto. La direzione del locale acconsentì a patto che suonassimo anche nella pomeridiana. Noi naturalmente avremmo accettato qualsiasi condizione.
Così rimediammo un amico con una Fiat 500 nella quale entrammo in quattro, più lui che guidava, basso e chitarra, completi di fodero rigido, che sporgevano dal tettuccio aperto. Un delirio.

Arrivati in teatro dovemmo discutere con il responsabile del gruppo di supporto, Pierfranco Colonna, che si oppose sputando fuoco e fiamme. Suonammo con la nostra solita verve ma potemmo goderci solo una parte del suo spettacolo, purtroppo dovevamo tornare di corsa al Titan.

Dopo il concerto Hendrix passò in via della Meloria e ci chiese di raggiungerlo il giorno dopo nel suo albergo, dove ci propose di seguirlo nel successivo tour mondiale. Avevamo 18-19 anni, eravamo senza passaporti e Pierfranco doveva partire per il servizio militare. Non ricordo esattamente chi di noi parlò e cosa dicemmo ma, per certo a malincuore, fummo costretti a rifiutare l’occasione della vita.

Forse fu la paura di avventurarci in qualcosa di più grande di noi: una tournée in tutto il mondo, noi che la serata più lontana da Roma l’avevamo fatta a Frosinone. Jimi ci disse di prepararci per il tour successivo, di farci trovare pronti a partire per gli Stati Uniti. Uscimmo da quell’albergo con la netta sensazione che il nostro futuro sarebbe stato roseo, invece  Jimi morì e con lui tutti i nostri sogni di gloria internazionale».

Al concerto  romano è presente anche Luciano Regoli, che in quei medesimi anni canta in gruppi rock dai nomi ormai persi nella leggenda: Worms, Misfits, Fire, Bubble Gum. Nella decade successiva entra nel Ritratto di Dorian Gray, Raccomandata con Ricevuta di Ritorno e Samadhi. Nel 1974 abbandona la musica per la pittura, dopo aver rifiutato di entrare nel Rovescio della Medaglia e nei Goblin. Ecco il suo “diario hendrixiano”.

Il racconto di Luciano Regoli

«È il 24 maggio e sto disegnando vicino alla finestra aperta dell’aula di figura al liceo artistico, quando qualcuno mi chiama. È il mio amico Trick con gli altri della band (Fire) che mi fanno segno di scendere. Ha in mano Are You Experienced di Jimi Hendrix, appena comprato. Ci diamo appuntamento per il giorno dopo davanti al Brancaccio, perché suona proprio lui.

Quell’uomo nero mi affascina e contemporaneamente m’impaurisce, sin da quando ho visto il suo manifesto in cantina alle prove: capelli arruffati, faccia da selvaggio, giubba da ussaro con gli alamari dorati! Domani vedremo, dovrò produrre un certificato falso per uscire prima da scuola: il concerto pomeridiano è alle 16.30.

Il giorno dopo, alle 15, davanti al teatro c’è già una folla notevole, composta da ragazzi diversi, come noi. Parlo di capelli lunghi, giacchette di velluto cangianti, strette strette, pantaloni larghi sotto e bassi in vita, come i nostri. Quando cammini per Roma non li vedi quasi mai. Ma oggi siamo tutti riuniti per Jimi, arrivati persino dalla Sicilia e dal Molise, quasi a volerci contare.

Trick è vestito come un’anziana signora. Ha rubato la camicetta a pois bianca e nera alla mamma, che fa pendant con il cappellone da strega e i soliti jeans attillatissimi di velluto rosa.
Non ci pare vero vedere Hendrix dal vivo. Il batterista di Gianni Morandi prende posto accanto a noi in galleria, ha un fazzoletto annodato al collo e sembra un contadino sudato.
Tutto il teatro è cosparso da casse Semprini da 100 watt; ce ne saranno un centinaio. Una è proprio accanto a noi ed è simile alle nostre, solo più grande. C’è un casino indescrivibile e l’eccitazione si taglia a fette.

Prima che ci sia il buio in sala spuntano dalle tende grigie del palco, ancora chiuse, le punte degli stivaletti di Hendrix, che sono giallo canarino.
Mentre il sipario si apre esplode l’Experience (Fire) con le luci del teatro accese: un muro di suono, creato da decine di amplificatori Marshall, sposta l’aria e le strutture della galleria ondeggiano e sussultano. Jimi ha preso di sorpresa anche i tecnici.

Quei tre diavoli tormentano e quasi uccidono i propri strumenti. Hendrix si avventa continuamente contro gli amplificatori per sfidarli in un infinito duello. Suoni lunghi e lancinanti escono dalla sua Fender Stratocaster.
Non si capisce più niente e il potere del suono manda in visibilio il pubblico. A un volume mai sentito prima l’aria selvaggia del chitarrista di Seattle aumenta con l’andare avanti del concerto, ogni suo solo sembra che avvicini la fine del mondo. Capisco che è diverso!

Il batterista è una furia, non porta il tempo, è continuamente sul controtempo con sincopi e rullate e il bassista sembra un po’ in disparte, nonostante faccia un gran lavoro.
Sono colorati da pazzi. Tutti noi in confronto siamo come alunni dell’asilo.
Dopo trenta minuti il volume scende quasi a zero sul solo di Red House. In sala silenzio di tomba. Dalla galleria qualcuno grida: “A zingaro!”. Vorrebbe suonare come un complimento, ma Hendrix non gradisce e alza il volume, ruggendogli contro con la chitarra.

Dopo un’ora è tutto finito. Siamo rincretiniti dal torrente di emozioni, mentre in sala regna un silenzio assordante. Io e Trick ci nascondiamo nei bagni del teatro, dove aspettiamo che riaprano i cancelli. Per la seconda volta ci godiamo quel ben di Dio: anzi il round serale è più travolgente del concerto pomeridiano. Stanotte dormiremo fra le stelle».

[foto: George Shuba, Authentic Hendrix LLC]