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Una canzone del premio Nobel nel suo nuovo disco “romano”. Un tour europeo, l’amore per i vinili. Abbiamo incontrato Jack Savoretti, l’artista anglo-italiano, che vive la musica come sua colonna sonora.

di Silvia Gianatti
intervista integrale pubblicato su Vinyl n.8 (maggio 2019)

[Continua da Jack Savoretti: «Quando Bob Dylan mi ha mandato due poesie» – pt. 1/2]

All’interno troviamo Touchy Situation, scritta da Bob Dylan. Ci racconti il vostro incontro?
In realtà non c’è molto romanticismo. Ho due manager americani che mi avevano proposto di collaborare con uno dei miei miti, Steve Earle. All’ultimo momento questa possibilità è saltata e il suo management, per scusarsi, ci ha proposto di attingere ai testi di Bob Dylan che avevano ritrovato in una valigetta.
Quarantotto ore dopo ero a colazione con mia moglie e ho ricevuto una mail con due poesie in allegato e solo “Bob” come firma. Bob era Bob Dylan, che aveva scelto per me quelle due.
La prima era cortissima e non l’ho capita. Quanto alla seconda, invece, era come se mi avesse letto nella mente. Ero eccitatissimo. Poi però ho preso la chitarra e per tre ore mi è sembrato di riprodurre una sua brutta cover. Dylan scrive come Dylan, ti viene da cantare come fa lui. Ha una rima antica, come i vecchi poeti americani di una volta. Ho provato terrore. Allora sono andato al piano, l’ho sfiorato sulla parola “Touchy” e da lì è partita l’idea musicale. In quel momento ho sentito diventare mia la canzone. Lui non so se l’ha sentita, ma abbiamo dovuto attendere l’ok dal suo management. Mi sarebbe piaciuto averlo da lui.

L’Italia dov’è in questo disco?
Non ho mai vissuto nel vostro Paese e a Londra io ero semplicemente londinese. Nessuno si preoccupava delle mie origini, ma da quando vivo in campagna mi fanno notare quotidianamente che sono l’unico italiano del villaggio. A volte mi parlano anche lentamente! Ne ho riso, all’inizio, perché sono inglesissimo.
Eppure ho un pezzo di Italia dentro di me e nessuno lo aveva mai sottolineato. Ho ricominciato ad ascoltare musica italiana, a guardare film, a farli vedere ai miei figli e mi è tornato l’entusiasmo di tirare fuori queste mie origini. L’entusiasmo italiano non esiste da nessun’altra parte del mondo. L’italianità mi ha ridato la fiducia di voler celebrare il mio amore per la musica. Registrare a Roma ha influenzato anche il mood dell’album. La città eterna ha un casino elegante che ti influenza, soprattutto se vieni dall’Inghilterra.

Ci sono influenze specifiche per questo tuo ultimo lavoro?
Sono affascinato dagli anni ’50 e ’60. In America c’era il soul, in Europa avevamo il cantautorato. C’erano le orchestre. E in mezzo a tutto questo ecco arrivare il batterista, il bassista e uno con la chitarra elettrica. C’è stata una collisione tra il crooner europeo e il rock. Ascoltando Patty Pravo, Mina e il primo Battisti lo si sente. O Marvin Gaye in America. Amo quella cosa lì, che non era un genere, era un “clash”. Ho cercato di riprodurlo. Poi io sono cresciuto con la musica americana, soprattutto grazie a quello che ascoltava mia mamma. The Band era il mio gruppo preferito.

E che cosa ascolti in vinile?
I dischi di Miles Davis, Johnny Cash, Chet Baker, Simon & Garfunkel.