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Intervista di Silvia Gianatti pubblicata su Vinyl n.7 (marzo 2019)

All’anagrafe è Giovanni Luca Picariello, ad aprile compirà 37 anni e viene da Avellino. Il suo nome si ispira a Goemon Ishikawa XIII, il samurai dell’anime giapponese Lupin III. Sulle scene da più di dieci anni, ha iniziato a scrivere rap nei primi anni ’90 per poi spostarsi in un territorio più soul, entrando in un genere senza definizione che va dall’R&B all’indie. Preferisce però non darsi etichette e portare avanti la sua musica tra ricerca ed eleganza di suoni. All’ultimo Festival di Sanremo ha presentato Rose viola, un brano che esce ora anche in 45 giri, in edizione speciale, che rivela tutta la sua anima raffinata. Ha cinque dischi all’attivo ed è al lavoro sul suo nuovo progetto che uscirà quest’anno. Disponibile, gentile, è un’anima bella della musica italiana con cui fa piacere parlare.

In quale punto della musica italiana ti collochi?
Non so come definirmi, mi piacerebbe poter essere qualcosa di unico, che non vorrei suonasse presuntuoso. So bene quali sono le mie radici. Io ho iniziato con il rap, l’hip hop. Poi il soul e l’R&B. Ho iniziato dal rap perché non pensavo di essere intonato. E pensavo non servisse. Ho cercato di convincere me stesso per primo a trovare la mia voce, in tutti i sensi. Per poter cantare. E so che è questo il genere che mi piacerebbe continuare a portare avanti, anche se in Italia è poco esplorato, sicuramente anche a causa della lingua.

Cosa vuol dire oggi, per un artista italiano, andare al Festival?
È una grande opportunità. Sono stato in circuiti piccoli per anni, imparando ad affrontare anche le situazioni più disastrose, emotivamente e psicologicamente, rispetto a occasioni come quella di Sanremo. Sponsorizzo la gavetta. I risultati grandi che arrivano in un’estate con una canzone mi fanno più paura di un percorso che immagino lungo come una maratona, più che come uno sprint. Lì vieni messo nella migliore condizione possibile per fare il tuo lavoro. È un bellissimo palco, che ho vissuto da debuttante a 37 anni. Un bellissimo momento. L’ho sempre pensato come una tappa importante di una corsa molto lunga.

Sei al lavoro sul tuo prossimo album?
Ci sto lavorando, sì. Sono entrato in studio il giorno in cui ho finito il tour, domeniche comprese. Ero convinto avremmo finito in tempo, ma sono una persona molto attenta ai dettagli, credo ancora nella musica in forma di disco, e non era pronto. Non mi bastano i singoli, voglio lavorare ancora un po’ su questi nuovi brani per fare uscire un disco di livello. Sperando che la visibilità che mi ha dato Sanremo aiuti le mie canzoni. Voglio che sia un altro tassello della mia carriera, voglio che sia bello.

Sei un perfezionista?
Decisamente. Cerco di non mollare mai, da nessun punto di vista. Sto attento a qualsiasi dettaglio, anche a quelli che possono fare la differenza quando hai tutti gli occhi puntati addosso. Cerco di non lasciare mai nulla al caso.

Esce in vinile 45 giri il tuo brano Rose viola.
È un brano che segue la lunga linea della tradizione d’amore italiana. Racconta una storia nel mezzo, uno spazio grigio e confuso di una elazione. È cantato dal punto di vista di una donna. La canzone è nata senza che Sanremo fosse nei miei pensieri. A volte i brani nascono in studio con mesi di lavoro, a volte in tre ore, come questo. Ho voluto esplorare una nuova prospettiva, anche rispetto alla mia scrittura, imparando dalle donne a guardare i dettagli. Volevo calarmi in una sensibilità diversa. Perché “viola”? Volente o nolente in questo brano c’è un po’ di malinconia. È un colore elegante che mi comunica questo sentimento.

Ascolti musica su vinile?
Vengo dall’epoca in cui le cassette e i vinili la facevano da padroni. Ho iniziato con il rap, i dischi si usavano per i live, nel lato strumentale. Ne ho sempre comprati, quindi, anche per questioni pratiche, così da poter fare musica dal vivo. Non esisteva ancora il lettore cd. Ho continuato a coltivare questa passione, non solo per il vinile in sé, come oggetto, ma anche per il suono. Per il mondo hip-hop, per i dj, è una parte estremamente importante. Ne possiedo una discreta collezione. Se compro, compro in vinile.

Quanti ne hai?
Più o meno trecento.

Hai un giradischi a casa?
Ne ho uno portatile, a cui puoi mettere le pile. Poi ho un classico Technics 1210 standard in studio, ormai è fuori produzione. E poi ho quello che ho comprato quando avevo quattordici anni.

Quando hai iniziato a fare musica?
Attorno ai dieci anni. Ho preso una canzone degli U2 e ho riscritto le parole in italiano. Non so perché. Nessuno era musicista attorno a me. A parte mio cugino che suonava la chitarra. La musica non era di famiglia. Ma è scoccata la scintilla.

Se dovessi scegliere artisti della tua formazione?
D’Angelo, Joy Villa, The Roots, che è stata la prima vera band hip-hop. Suonare il rap dal vivo significava usare un giradischi, la band non era contemplata. Quella formula mi ha aperto la mente anche per quello che avrei voluto fare.

Tra i cantautori italiani?
Pino Daniele.

Cos’è per te la musica e quanto ti serve?
È star bene, è tirar fuori, è buttare fuori. È tutte queste cose. È anche una dose di frustrazione. È una produzione tua e se non ti piace ti innervosisce. Non è uno sfogo, ma è una grande esplorazione di quello che non so. Mi piace essere versatile, ci sono ancora tanti mondi che non ho ancora esplorato. In me, nella musica.

[Foto: Ghemonofficial Facebook]