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Ritratto dell’artista-artigiano del cantautorato italiano, oggi scrittore

[di Gianni Sibilla – articolo pubblicato su Vinyl n.12]

«Davvero ho scritto più di 200 canzoni? Per molti sembra ne abbia fatte solo tre: Dio è morto, La locomotiva e L’avvelenata». Francesco Guccini è la storia della canzone italiana dagli anni ’70 a oggi, ma con tanta umiltà preferisce definirsi artigiano, più che artista. È appena uscito Note di viaggio, un doppio Lp in cui i grandi della musica italiana, guidati da Mauro Pagani, rileggono la sua musica: è l’occasione per uscire dal rifugio di Pavana, dove si è ritirato per dedicarsi soprattutto alla scrittura. È tornato anche a cantare: ha inciso per l’occasione una nuova canzone. Lo abbiamo intervistato per ripercorrere i suoi 50 e più anni di carriera.

Partiamo da L’avvelenata. Pagani dice che è stata la canzone più richiesta dagli altri artisti: alla fine l’ha cantata lui con Manuel Agnelli.
Una sera ero a Bologna, in un’osteria, ed è entrato Vasco Rossi, che mi ha fatto i complimenti per L’avvelenata. «Ne ho scritte anche altre, eh», gli ho risposto…

Le tue canzoni hanno accompagnato un periodo della vita di tutti. Che rapporto hai con quello che hai scritto e cantato?
Non le riascolto le mie canzoni e mai mi è piaciuto farlo. Così come non ho mai amato riguardare i miei concerti, provo imbarazzo; trovo solo i difetti, non mi piaccio. Scrivevo le canzoni di getto e tante sono nate in un pomeriggio, anche le tredici strofe de La locomotiva sono arrivate una dietro l’altra, anzi mentre scrivevo una strofa già prendevo appunti per la successiva che si formava nella mia testa. Poi è diventato faticoso, scriverle e ancora di più cantarle. Inevitabilmente le mie canzoni raccontano la mia vita, si ritrovano dettagli che riconosco ancora e che riflettono il mio pensiero.

Oggi come ti definiresti?
Oggi sono uno scrittore, che in realtà è quello che sempre ho sognato di fare, e il mio modo di scrivere è rimasto lo stesso dopo tutti questi anni, ridondante di aggettivi e frasi.

Fin dagli esordi non hai mai avuto paura di schierarti. Hai vissuto la musica come un veicolo di messaggi?
Io da sempre diffido di chi ha la verità in tasca: ho sempre cercato nel dubbio, nell’incertezza, nella domanda continua. Ho sempre messo l’onestà, prima di tutto verso me stesso, nelle mie canzoni: sono sempre stato sincero e ho sempre espresso il mio pensiero. Le canzoni nascono quando hai l’urgenza di dire delle cose, quando hai voglia di raccontare. Le parole sono potenti ma non ho mai scritto una canzone pensando all’effetto che avrebbe avuto sugli altri. Con le canzoni si possono, per esempio, ricordare avvenimenti, in modo che questi non scompaiano o vengano dimenticati. E poi inevitabilmente nelle mie canzoni entrano i miei pensieri e le mie idee. Non ho mai avuto timore di espormi e non mi sono mai censurato. È inevitabile che dai miei testi, come dai miei libri, emerga il mio punto di vista. Sono stato anche un giornalista e so bene che a volte schierarsi sia inevitabile: proprio per questo trovo che scrivere una canzone, così come scrivere libri, sia una forma di comunicazione. Noi siamo persone che vivono in mezzo ad altra gente, che hanno interessi, ed è ovvio che nei nostri testi emerga il nostro punto di vista e il nostro orientamento.

[foto: Associazione Amici di Piero Chiara – licenza: Creative Commons Attribuzione 2.0 Generico / continua con la seconda parte]