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Dalla chiacchierata con Francesco De Gregori, pubblicata sul numero 10 di Vinyl, sono emersi molti aneddoti interessanti riguardanti la sua produzione e la sua visione del far musica…

[di Claudio Todesco – articolo integrale pubblicato su Vinyl n.10]

L’album che ha reso popolare Francesco De Gregori, Rimmel del 1975, fu inciso su un registratore a 4 piste, una tecnologia già allora superata.
«Quel registratore a 4 piste fu trasformato in un 8 piste grazie a qualche strano marchingegno», ricorda De Gregori, che ha vissuto in prima persona l’evoluzione tecnologica delle sale di incisione, fra cui il passaggio, anni dopo, dalla tecnologia analogica a quella digitale, dalla registrazione su nastro a quella su file.

«Oggi, grazie a Pro Tools, puoi registrare un numero infinito di piste e hai sistemi di controllo e aggiustamento delle tracce che ti consentono di correggere e rifare le cose in continuazione, il che non è proprio sano», spiega, perché anche l’imperfezione ha un suo fascino.
«Produttore e fonico ti dicono: “Senti che il basso è leggermente spostato? Ora lo rimettiamo a posto”. Quando cominci a rimettere tutto a posto, però, non ti fermi più. Con il risultato che la musica che ottieni ti sembra giusta in quel momento, ma quando la riascolti dopo un anno capisci che non ha niente a che fare con i dischi che hai amato».

L’amore di De Gregori per metodi produttivi arcaici è emerso un anno fa con la pubblicazione in edizione numerata e limitata di Anema e core, ovvero un vinile in 10” in cui il cantante interpreta il classico napoletano in coppia con la moglie Alessandra, accompagnato da una xilografia ospitata in una teca di plexiglas realizzata dall’artista Mimmo Paladino.
Un atto di protesta contro la cultura digitale.