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Protagonista di una delle stagioni più viscerali e partecipate della musica popolare italiana, il cantautore romano ci ha riportato alla bellezza di fare e ascoltare musica con sincerità. Abbiamo chiacchierato con Francesco De Gregori in attesa di rivivere le emozioni dei suoi album nella nuova collezione De Agostini

[di Claudio Todesco – articolo integrale pubblicato su Vinyl n.10 / continua da Francesco De Gregori: il tempo ritrovato – l’intervista pt. 1/4]

I musicisti che hanno collaborato con te mi hanno riferito del senso di libertà che hanno provato.
Gli artisti che stimo, a partire da De André, Battisti, Dalla, sono sempre stati liberi. A un certo punto hanno dimenticato di avere un debito nei confronti della società dello spettacolo e si sono messi a fare quel che gli pareva in modo anche anticommerciale. Gli artisti che stimo non si adagiano su un cliché, non fanno indagini di mercato, non analizzano quel che passa in radio.

Mai ricevuto condizionamenti?
No, non sono mai stato ricattato economicamente da nessuno. I miei contratti discografici non hanno mai previsto scadenze, nemmeno quando avevo vent’anni. Non mi sono mai impegnato a fornire uno o più dischi entro una certa data. Mi impegnavo a fornire tre dischi entro… mai. Li potevo consegnare in due o in vent’anni.

All’epoca era una cosa comune?
No, ero l’unico a farlo.

Quando hai capito che l’assenza di scadenze era importante?
L᾿ho capito subito. La prima volta che mi hanno messo davanti un contratto che diceva «entro il 31 dicembre 1974 l’artista dovrà consegnare un microsolco», ho detto: «Questa cosa non va bene».
L’assenza di scadenze mi ha sempre garantito una certa libertà e mi ha permesso – cosa non necessariamente sempre positiva – di passare periodi abbastanza lunghi senza dover per forza fare dischi. Non ho mai avuto un committente che mi aspettava con i soldi in bocca.

E intanto, mentre sorvegliavi la tua autonomia, hai lavorato per lasciare alle spalle l’idea di cantante voce e chitarra e diventare un capobanda, no?
Sì, con una certa incoscienza e spericolatezza. Arrivavo in sala, andavo a orecchio, dicevo delle cazzate terribili.
Il bassista mi spiegava: «Francesco, così non si può fare, senti quest’altra cosa». Ero un capobanda, ma ero incosciente. Però ho imparato.

E quando è finito questo percorso di apprendimento?
Non è finito. Sai, sono un musicista autodidatta. Ogni tanto parlo con la mia band di battute e di quarti da mettere e levare. Mi guardano come se pensassero: «Ma che diavolo stai dicendo, Francesco?». In realtà capiscono quel che voglio dire. Mi aiutano il mio capobanda Guido Guglielminetti, Paolo Giovenchi, Alessandro Valle.

Non sei uno che si affida ai produttori…
Ne ho avuti due, Fio Zanotti e Corrado Rustici, e in entrambi i casi non sono rimasto felice del risultato.
È come se il suono dovesse partire da me, dalla mia bizzarria, dalla mia stranezza, dal mio non essere competente, dal mio essere uno prestato alla musica.

Interessante questa cosa…
Vantandomi un po’, credo che abbia a che fare con il talento. Vedi undici ragazzini giocare a pallone e ti accorgi che uno fa una cosa che non rientra negli schemi, una diagonale a cui gli altri non pensano. Quel ragazzino sono stato io. Ci nasci.

In molte tue canzoni racconti la storia, diciamo così, ad altezza uomo. Ti concentri su vicende individuali inserite in un quadro più ampio.
Certo non l’ho inventato io, I promessi sposi sono questo. Sono stato molto influenzato da I Malavoglia, anche se di recente l’ho riletto e non so perché mi ha deluso. Mi ha influenzato la descrizione dei derelitti in qualche modo stritolati dalla storia, uomini che prima o oltre ogni ideologia combattono contro i nemici e la natura. A parte poche eccezioni, la storia che racconto io ha poco a che fare con la politica.

[continua con la terza parte sabato 19 / foto: Gorupdebesanez – licenza: Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 3.0 Unported]

Da Rimmel a Titanic, da La donna cannone a De Gregori canta Bob Dylan – Amore e Furto.
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