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Protagonista di una delle stagioni più viscerali e partecipate della musica popolare italiana, il cantautore romano ci ha riportato alla bellezza di fare e ascoltare musica con sincerità. Abbiamo chiacchierato con Francesco De Gregori in attesa di rivivere le emozioni dei suoi album nella nuova collezione De Agostini

[di Claudio Todesco – articolo integrale pubblicato su Vinyl n.10]

Una signora di mezza età passa vicino al tavolo dov’è seduto Francesco De Gregori. «Oh, lei è qui? Lo sa che l’ho vista in concerto per la prima volta quando avevo diciassette anni?». E lui, galantemente: «Poco tempo fa, signora».
Altri passanti si fermano e chiedono un autografo, una foto, una parola.
Un uomo saluta come fosse un vecchio amico: «Mi raccomando, Francesco, sempre aggressivo!».
De Gregori risponde a tutti, è affabile, sorride.
«Vedi? Quando sono per strada, possiedo una normalità assoluta. Ma quando salgo sul palco mi trasformo, perché faccio spettacolo. L’uomo di spettacolo è attore, è interprete. Una maschera».

L’ultima maschera indossata da De Gregori è quella dell’intrattenitore che dà alla gente quel che la gente vuole: La donna cannone, Rimmel, Alice, Generale, i classici insomma, rifatti con l’accompagnamento di un’orchestra, del suo gruppo e dello Gnu Quartet.

Il palco è l’ultimo rifugio di Francesco De Gregori, il luogo dove ancora può trovare una connessione con il suo solo committente: il pubblico.
Lo spiega bene in questa intervista in cui racconta la sua autonomia, il suo essere uomo prestato alla musica, la sua definizione di originalità. E l’ultima sfida: scrivere canzoni senza avere un pubblico in cui rispecchiarsi.

Pensando al giovane De Gregori, Giovanna Marini, che ha inciso con te Il fischio del vapore, disse: «Aveva bisogno di raccontarti la sua anima per salvarla». C’è del vero?
Forse Giovanna aveva intravisto in quel che ero allora, un ventenne che frequentava il Folkstudio, la necessità di essere innocente nei confronti della musica. Forse mi vedeva predisposto a una certa purezza nei confronti dell’arte, del mestiere.

Far musica, scrivere canzoni, esibirsi rispondono a un bisogno?
Sì, puoi chiamarlo narcisismo oppure esibizionismo. Ogni artista onesto pensa che quello che fa riguardi gli altri. Non lo fa mai solo per se stesso. L’artista immagina un pubblico. Non lo segue, non lo compiace, ma è convinto che quel che fa vada visto, ascoltato, letto. Ha bisogno di esprimersi sapendo che davanti a lui ci sono persone pronte ad ascoltarlo. Il fenomeno di massa dei cantautori nacque dal desiderio dei nostri coetanei di un certo tipo di emozione. Noi sapevamo che queste canzoni avevano bisogno di essere scritte. Questa consapevolezza ci ha tenuti in buona forma artistica.

All’inizio, però, la vostra era una bella scommessa…
Ci sentivamo un’avanguardia, un po’ come i beatnik, gli scapigliati, i futuristi, si parva licet.

L’affetto del pubblico rappresenta una forma di validazione del tuo lavoro?
È gratificante, anche se il grosso successo comporta equivoci nella lettura.
Quando sei un artista di nicchia con un pubblico carbonaro e improvvisamente fai un disco importante e non suoni più per 50, ma per 500 o 1000 persone, ti accorgi che quel pubblico carbonaro si sente tradito, ti tratta male, ti guarda con sospetto. Forse perché ha investito tanto nelle canzoni dal punto di vista emotivo.
È quel che distingue la musica da altre espressioni artistiche. Scatena reazioni viscerali. La canzone è per sua natura un prodotto veloce, comunicabile in pochi minuti, non gravato da alcun tipo di necessità culturale.
Il pubblico ascoltava le nostre canzoni con la leggerezza con cui non poteva prendere Manzoni o Dante. Allo stesso tempo, le nostre canzoni avevano dei contenuti. Non erano più, con rispetto parlando, le canzoni di Rita Pavone o di Edoardo Vianello. C’erano delle cose che si agitavano dentro e che avevano a che fare con la letteratura, con la storia. Con il vantaggio che le canzoni passavano alla radio, non dovevano essere studiate a scuola.

La tua storia artistica è caratterizzata dalla costante ricerca di indipendenza dal mercato, dalla discografia, dalla politica.
È autoincensatorio, ma se c’è una cosa che posso rivendicare è l’autonomia.

Ti definiresti un individualista?
Assolutamente no, mi sento uno che fa parte della vita degli altri, che sta bene con gli altri, che fa una vita normale, che non è chiuso in una torre d’avorio.

[continua con la seconda parte / foto: Corrado de Luca – licenza: Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 3.0 Unported]

Da Rimmel a Titanic, da La donna cannone a De Gregori canta Bob Dylan – Amore e Furto.
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