Il frontman dei Tiromancino ripercorre la storia della band nei sedici brani di Fino a qui, proposto in un doppio vinile. Dagli esordi in blues a quella volta che Jovanotti non ha risposto a un messaggio

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Federico Zampaglione è seduto nella hall del suo albergo, a Milano. In radio è appena passato il suo pezzo: «Pensavo avessero messo il disco in mio onore», ride. Racconta con tono lento e preciso quasi tutto, si illumina e sorride quando parla di sua figlia e della ricerca musicale che lo accompagna da sempre. Sono passati quasi trent’anni da quando ha fondato i Tiromancino e, dal 1992, non si è mai fermato a risentire quello che ha fatto o a cercare di ripetere un successo. È sempre valsa di più la ricerca, fatta di suoni che non andassero dietro al mainstream, prendendo parole dalla vita vissuta: «è l’unico modo che conosco per scrivere». La storia della sua band è ora racchiusa nei sedici brani che lo hanno portato Fino a qui, che è il titolo dell’ultimo disco, un doppio vinile dal suono caldo e che lui per primo ascolta volentieri dal giradischi. In questa nuova uscita il cantautore romano non fa bilanci e non celebra, ma lascia suonare la musica reinterpretandola con altre grandi voci della musica italiana. Non per creare una risonante operazione di marketing, ma per risuonare le sue canzoni con chi le ha amate. Da Jovanotti a Biagio Antonacci, Elisa, Giuliano Sangiorgi, Tommaso Paradiso, Calcutta, Alessandra Amoroso, Luca Carboni, Fabri Fibra e Alborosie. Fino alla figlia Linda: «è meraviglioso pensare che tra qualche anno si riascolterà».

Come sei arrivato “Fino a qui”? 

Negli anni la mia voce è cambiata, si è abbassata molto. Avevo voglia di sperimentare, dare un nuovo vestito a questi brani, riarrangiarli. È un progetto partito quasi per gioco, dove ho coinvolto gli amici con cui, negli anni, ho spesso condiviso opinioni. È materiale che ho sempre suonato, non c’è nostalgia ma sapore di festa.

Per questo progetto hai coinvolto grandi ospiti. Ti hanno detto tutti subito sì?

Sì, li ho contattati su Whatsapp. Se avessi scelto la strada ufficiale saremmo ancora qui, ad attendere la burocrazia delle case discografiche. A Jovanotti ho invece mandato un sms normale, lui non ha Whatsapp. Non ha risposto subito, non sapevo neanche se avesse visualizzato il messaggio. Ho pensato che non gli interessasse. Il mattino dopo, prestissimo, è squillato il telefono. Era lui, pieno di entusiasmo. Mi ha detto: «Ti ho svegliato? Facciamolo».

Come hai affidato le canzoni?

Sapevo esattamente quali fossero le canzoni preferite di ognuno. Nel caso di Lorenzo, per esempio, nel 2000, quando ancora non ci conosceva nessuno, aveva scritto su di noi, consigliando di ascoltare La descrizione di un attimo. Ha acceso l’attenzione di stampa e pubblico. È stato quindi automatico dargli quel brano.

Si può quindi essere amici, tra artisti?

Sento spesso dire che il nostro campo è pieno di invidia e gelosia. E in fondo, forse, è anche così, come in ogni ambiente lavorativo e anche in ogni famiglia. Io non sono mai caduto in questa trappola, credo nella condivisione, ho sempre visto la musica come qualcosa da creare insieme. Vengo dal blues, l’ho suonato tanto all’inizio della mia carriera, ho imparato l’importanza delle jam session. Le cose più belle nascono così, non sai neanche come ci arrivi.

Condivisione, ma nel tuo caso spesso anche sperimentazione.

È sempre stato così per me. Non mi interessa la moda, non cerco di ripetermi in quello che ha funzionato. Porto avanti le idee che mi piacciono. Non mi vedrete mai in studio a pensare cosa piace alla gente. Mi interessa sapere cosa pensa il pubblico, quando ho finito.

 Che cosa ascolti?

Ascolto di tutto da sempre, vado a periodi. Ho questo vizio per cui per addormentarmi ascolto album in cuffia. Ora sono fissato con la musica messicana. Sto ascoltando tutti gli album di Pepe Antonio Aguilar.

E in vinile, ascolti qualcosa?

Tantissimo. Il vinile è il vinile, come un vecchio amico che non scorderai mai. Il Cd è una boiata, si graffia, lo ascolti in macchina, lo trovi con un segno sopra. Il vinile invece lo tieni in casa, guai a chi me lo tocca. Ha un odore suo, ha la carta… è una questione di materiali. È come usare uno strumento degli anni ’70, un moog, un Prophet-5, un piano Rhodes oppure avere un plug-in sul computer che va a emulare quella sonorità. Se sei un cultore del suono e senti l’emulazione non puoi che innervosirti. Il vinile ha il grande dono della precarietà, quel fruscio meraviglioso, quel senso di calore che per fortuna la gente sta tornando a sentire, ad accostare alla musica.

Ultimamente anche tutte le nuove uscite sono in vinile. Pensi sia giusto o bisognerebbe selezionare?

Tutto si può mettere su vinile, perché no? Il vinile è un supporto di grande dinamica e valore, ripropone la musica. Non c’entra solo il passato. Suona bene, ha un suono pieno, più caldo. Ben venga il vinile! Io sono felice del mio doppio vinile, lo ascolto alla grande.

Ne possiedi molti?

Ho tantissimi vinili heavy metal, che conservo da quando ero piccolo. Ho decine di vinili di jazz, da Miles Davis a Charlie Parker, passando per il blues. Ho tanti dischi di Clapton, quasi tutta la discografia di Jimi Hendrix, la Motown… Ho una stanza per i dischi, li ho conservati tutti. E noi, come Tiromancino, abbiamo continuato a usarli per campionare i suoni, con uno stile derivato dall’hip hop. Alcuni, appena li metto su, hanno dei fruscii e scricchiolii incredibili. Ma è bello ascoltarli anche così.

Quest’articolo è tratto dal numero di De Agostini Vinyl in edicola