Condividi su

Il punk italiano vive la sua stagione più autentica tra il 1978 e il 1979, battezzata al concerto di Adam and the Ants a Milano, dove suonano anche i Decibel di Enrico Ruggeri. Che ci racconta tutto…

di Giuliano Donati e Fred Ventura
intervista integrale pubblicata su Vinyl n.8 (maggio 2019)

«Alla fine degli anni Settanta in Italia non esisteva nemmeno la musica rock. Figuriamoci il punk! Nel 1977 ero stato qualche giorno a Londra con i soldi risparmiati lavorando come commesso per tutta l’estate. La mia rabbia era al culmine. A Londra capivi che stava succedendo tutto e che noi eravamo tagliati fuori. Lì ogni giorno nascevano nuove band punk e molti di quei musicisti, anche se modesti tecnicamente, stavano cambiando la storia del rock. I Sex Pistols in particolare, guidati da Malcolm McLaren, stavano mettendo a ferro e fuoco l’Inghilterra, mentre le case discografiche se li contendevano. Io sognavo di fare qualcosa del genere in Italia. Appena rientrato per prima cosa ho cambiato nome alla mia band, che fino ad allora si chiamava Trifoglio, per puntare su una parola semplice, forte e internazionale: Decibel. L’avevo trovata nel testo di una canzone dei Mott the Hoople, in uno dei dischi con cui ero cresciuto. Ma se in Inghilterra l’istituzione da scardinare era la regina, in Italia lo scenario era diverso. Da noi l’istituzione erano i gruppi extraparlamentari di sinistra, all’epoca davvero privi di autoironia, fantasia e capacità di ascolto, oltre che intransigenti, che non sapevano nulla del punk e di certo non potevano capire la nostra rabbia fatta di giubbotti di pelle nera, spille, capelli corti, borchie e gel. L’idea giusta mi è venuta poco dopo, quando abbiamo annunciato il primo concerto punk alla discoteca Piccola Broadway a Milano: “4 ottobre”, recitava il volantino che distribuimmo ovunque nelle scuole e nei centri sociali, “concerto punk a Milano con i Decibel”. È successo il finimondo. E ovviamente non ci hanno fatto suonare. Anzi: non ho potuto nemmeno avvicinarmi alla discoteca e sono restato a guardare la scena da lontano. Si erano radunati centinaia di punk accorsi da tutta Milano, gente mai vista prima. Eravamo riusciti a farli venire fuori allo scoperto. Peccato che oltre a loro fossero arrivati anche i cortei antifascisti di Autonomia Operaia e ci fu una specie di rissa, con l’intervento finale della polizia. Il risultato è stato che, senza nemmeno suonare una nota, ero diventato famoso. Radio Popolare volle intervistarmi subito e dal giorno dopo ricevevo anche telefonate anonime con minacce di ogni tipo. Di quel concerto mancato ne parlarono anche i quotidiani nazionali. E alla fine arrivarono pure i giornalisti musicali (tutta gente che ovviamente non sapeva nulla del punk) e Maurizio Arcieri, dei Krisma, l’unico musicista italiano imparentato con il punk in quegli anni. Ci portò alla Phonogram che, dopo averci obbligato a cantare in italiano (all’epoca era impensabile una band italiana che cantava in inglese), diede inizio alla nostra carriera musicale».

Enrico, riavvolgiamo il nastro e torniamo a dove tutto è cominciato…
Nel 1977 in Italia nessuno ascoltava il punk e nessuno sapeva chi erano i Sex Pistols. Io invece già negli anni precedenti avevo notato i segnali di qualcosa che stava cambiando.
Mi ricordo gli articoli di Manuel Insolera che leggevo negli anni ’70 su Ciao 2001. Lui per me è stato importante, perché invece di parlare dei soliti cantautori e del rock anni ’60, scriveva delle New York Dolls e dei Roxy Music e poi di Bowie e Lou Reed. Nei suoi articoli, invece di recensire i soliti Neil Young e Guccini, scriveva di un altro genere di musica. Ho scoperto così anche i Tubes di White Punks on Dope.
Erano anni davvero intensi e tutta la rabbia che c’era in giro non poteva essere incanalata solo nella musica prog. Il prog era una musica bellissima e la ascoltavo anch’io. Ma era molto simile alla musica classica. Il musicista prog era super preparato e veniva dal Conservatorio. Quando lo ascoltavi o lo vedevi ai concerti ti scoraggiava. Ti dicevi «io non ce la farò mai, la musica non è roba per me». Io sapevo che non avrei mai suonato la chitarra come Steve Howe, anche se ero stato mandato a scuola a fare solfeggio. La musica fatta in quel modo non era per i ragazzi come noi.
Poi a un certo punto, nel 1976, arrivarono Ramones, Television, Patti Smith e tanti altri nuovi gruppi. Non c’erano più gli assolo né di chitarra né di batteria e la rabbia sembrava finalmente libera di sfogarsi.

Come si condivideva allora la voglia di cambiare?
Era nell’aria. Eppure, anche se in televisione nel 1977 passò un servizio sui Sex Pistols, qui in Italia mancavano i locali, che da noi erano solo discoteche, e mancava l’interesse per la musica come veicolo di espressione e di ribellione, visto che tutta l’energia dei movimenti giovanili era canalizzata verso la politica e i cortei in piazza. Per fortuna però c’erano alcuni negozi di dischi a Milano dove arrivavano le novità, per esempio da Buscemi in corso Magenta e da New Cary in via Torino.
Ma il posto per eccellenza per condividere dischi e cultura musicale era la fiera di Sinigaglia di via Calatafimi, zona Ticinese, il sabato pomeriggio, dove si radunavano centinaia di giovani, hippies e punk, in cerca di dischi usati da comprare e da vendere. In fiera ci passavi il pomeriggio, parlavi con decine di altri ragazzi come te e scambiavi dischi e idee. Andando lì riuscivi a sapere quasi tutto. In un’epoca senza internet quello era il centro del mondo, il social a nostra disposizione. Lì scoprivi che c’erano i concerti, per esempio tutti quelli venuti dopo il 1978 all’Odissea 2001 di viale Forze Armate a Milano, un locale che negli anni successivi ha catalizzato la scena punk e poi new wave in Italia, portando da noi tanti gruppi fondamentali come Pop Group, Slits, Bauhaus, Gang of Four, Echo & the Bunnymen, A Certain Ratio, Suicide e tanti altri.

Tra gli anni del prog e dei cantautori, quando tu avevi quindici anni, e l’arrivo del punk, quando ne avevi venti, che cosa è successo?
C’è stato soprattutto il rock decadente. Con David Bowie e Lou Reed. Ci sono stati i Roxy Music e, per i palati più fini, ci sono stati anche gli Sparks, i Cockney Rebel e i Mott the Hoople. In Italia non era una musica molto seguita e nemmeno amata, visto che all’epoca era quasi obbligatorio ascoltare i cantautori, per non parlare degli Inti Illimani o del country rock della West Coast.
Come racconto nel mio libro (Sono stato più cattivo, Mondadori, 2017 – ndr), le prime amicizie degli anni ’70 nascevano sui banchi di scuola proprio partendo dalla musica. Uno dei miei primi compagni di banco si chiamava Carmelo e diventammo inseparabili scoprendo il nostro comune interesse per le pagine di Ciao 2001. Insieme suonavamo la chitarra e abbiamo fatto il nostro primo gruppo. Doveva essere il 1972 e suonavamo Sweet Leaf dei Black Sabbath.
Con Fulvio Muzio, altro mio amico storico, la scintilla dell’amicizia scattò in uno dei primi giorni di scuola, tra i banchi del liceo classico Manzoni a Milano, quando lui mi disse quella che io ho definito la frase magica, quella che ci ha unito per sempre: «Gli Inti Illimani mi fanno cagare». Dire una cosa del genere in quegli anni equivaleva a sfidare l’establishment della cultura dominante dell’epoca. Fu lui a farmi scoprire i Queen prima e i Roxy Music poi.

[Continua il 23 giugno con la parte 2]