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Elisa ha le idee chiare su cosa sia la musica oggi e si gode il momento d’oro del suo album Diari aperti, che porta in tour nei teatri da marzo a maggio.

Leggi l’intervista integrale di Silvia Gianatti su Vinyl n.6 (febbraio 2019)

Il suo ultimo disco segna un cambiamento nel suo percorso musicale. È il primo pubblicato da una nuova casa discografica, la Universal, dopo 20 anni trascorsi al fianco di Caterina Caselli. Inoltre, nasce dalle pagine dei suoi diari, per un racconto ancora più intimo e confidenziale.

Il racconto di Diari Aperti

Da dove è arrivato questo bisogno di raccontarti così?
L’anno scorso ho fatto quattro concerti all’Arena di Verona che per me hanno rappresentato un grande picco, mi ero buttata completamente in quest’esperienza, lavorandoci per più di un anno. Festeggiavo il mio ventennale di carriera. Due mesi dopo ho compiuto 40 anni. Avevo nel frattempo cambiato casa discografica. E vissuto vicende personali importanti, in primis la morte di mio padre qualche anno fa.
Tutte queste cose insieme hanno rappresentato un bisogno di guardarmi dentro, per capire dove fossi ora e dove soprattutto volessi andare. Non volevo fare un esercizio di stile e cadere nella trappola della comfort zone. Ho deciso di non nascondermi buttando fuori quello che ho sentito necessario.

Come funziona il tuo processo creativo?
Diari a parte, io mi appunto sempre tutto, continuamente. Note vocali, anni fa avevo il registratorino. Registro tutto con molta leggerezza, quando appare una melodia la metto lì. Quando invece scrivo cose più importanti, è come se mi investissero. Devo fare quello e solo quello, da sola. Inizio e finisco. Esce la musica con le parti più importanti del testo ed è come un tutt’uno. Una sensazione molto forte, difficile da descrivere. È come se tutto esistesse già e io dovessi solo trascrivere. Non voglio farla sembrare un’esperienza paranormale. Ma è qualcosa di veramente istintivo.

Il vinile è spaziale

Tra i cambiamenti in musica dell’ultimo periodo c’è anche un ritorno al supporto vinile.
Il vinile è spaziale. Ne ho da sempre. Amo tutto ciò che arriva dal passato, ho anche un grammofono a casa. Il mio primo ricordo è legato alla valigetta della Geloso, su cui ascoltavo Heidi, Remy, Candy Candy. Oppure i dischi anni ’60 che prendevo a genitori e zii. Ho iniziato così. Poi ho cominciato a viaggiare e andavo nei mercatini. Ho un’intervista dei Dead Kennedys su vinile, perché una volta si registravano anche le interviste. Poi la colonna sonora di Christiane F. con David Bowie. Tanto jazz e free jazz.

Il tuo album lo hai ascoltato in vinile?
Certo! Anche se il mio disco che ho ascoltato di più e che ho consumato in vinile è Lotus.

Gli artisti di riferimento

Ti ritieni influenzata o cresciuta da qualche ascolto in particolare?
Ho avuto fasi di quasi emulazione con artiste da cui ho preso anche troppo. In particolare tre, che poi ho avuto modo, fantasticamente, di conoscere: Dolores O’Riordan, dei Cranberries, con cui ho anche cantato, Alanis Morissette, il suo Jagged Little Pill l’ho dovuto comprare quattro volte tanto l’ho consumato, e Björk.

Invece, italiani di riferimento?
Battisti Battisti Battisti. Sempre Battisti. Poi Mina. Da più grande Carmen Consoli. Poi Francesco De Gregori. De André. Ma anche i Subsonica, i Bluvertigo, Max Gazzè, Daniele Silvestri, gli Scisma, i 99 Posse. Ora sto scoprendo Lucio Dalla, a fondo. Non lo avevo mai ascoltato tanto. Mi sta devastando.

Oggi cos’è cantare per te, che cosa è cambiato e cosa conta?
È cambiato tutto. La mia vita. Quello che non è cambiato è il momento in cui scrivo una canzone. Anzi, oggi mi emoziono più di prima. Perché mi commuove che succeda ancora qualcosa di magico. E poi sul palco. Quando prendo il microfono in mano l’emozione è ancora fortissima, anche più di una volta. È come se percepissi tutti i chilometri che ho fatto. Negli ultimi anni ho studiato canto, mi sento in forma a livello fisico e affrontare il palco è anche una questione di come sta il tuo corpo. Il canto è una questione fisica. E io mi sento come venticinque anni fa. Anzi trenta. Certo poi quando finisce il concerto è tutta un’altra storia, non dormo più tredici ore di seguito. I bimbi che mi svegliano alle sei mi ricordano dove sono oggi. Ma sono felice.