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Dopo aver fuso la tradizione folk con il rock and roll e aver dato il La alla rivoluzione del ’68 e ai temi della controcultura, Bob Dylan volta le spalle a chi lo aveva ormai eletto a simbolo. Ricomincia da zero una carriera che attraversa mille altri mondi musicali e culturali, in cui tra alti e bassi è possibile scoprire una vasta gamma di stili e di autentici capolavori , riproposti in edicola, nella nostra Bob Dylan Vinyl Collection.

[Articolo di Stefano Solventi originariamente pubblicato su Vinyl n.7]

Bob Dylan ha spostato più volte i limiti di ciò che viene considerato rilevante in ambito musicale. Allergico a chi cercava di inquadrarlo in uno o nell’altro di tali ambiti, lo ha fatto sul versante del folk prima e del rock poi, ivi compreso ovviamente il cosiddetto cantautorato rock. Molti di questi traguardi, come tutti sanno, li ha raggiunti negli anni Sessanta, prima cioè di compiere trent’anni.

Proprio in ragione di ciò, è del tutto comprensibile se quando si pensa, si legge, si parla e si scrive di Dylan, è principalmente all’opera di quel ragazzo dei Sixties che ci riferiamo. Tuttavia, sarebbe imperdonabile credere che quanto da lui prodotto negli ormai quasi cinquant’anni (e quasi trenta album di inediti) successivi non abbia aggiunto nulla, non abbia spostato qualche altro limite e segnato più o meno indelebilmente l’immaginario collettivo. Si tratterebbe di uno sciocco, macroscopico errore.

Messo agli atti che anche nei dischi meno fortunati Dylan ha saputo azzeccare qualcosa di prezioso, non mancano certo dal 1968 in poi lavori estremamente significativi. Tanto per la sua discografia che – di conseguenza – per la discografia pop-rock tutta.

Ci limiteremo qui a indicarne solo alcuni, partendo per esempio da quel Pat Garrett & Billy the Kid (1973) che vide la luce “soltanto” come soundtrack per la celebre pellicola di Sam Peckinpah (nella quale lo stesso Dylan reciterà una parte), in cui ebbe il merito di infilare quell’apoteosi di semplicità, atmosfera, epica e apocalisse che risponde al nome di Knockin’on Heaven’s Door (i Guns N’ Roses ringrazieranno perennemente).

L’anno successivo coincise con il ritorno ai tour, al rock e al sodalizio con la Band, grazie a Planet Waves (1974), un album fatto da undici «cast-iron songs & torch ballads» – come recita la scritta in copertina – tra cui la trepida On A Night Like This e l’innodica Forever Young, dedicata al figlio Jakob.

È stato il preludio al meraviglioso Blood on the Tracks (1975), privo forse della forza rivoluzionaria dei vecchi lavori. Ma tanto intenso e ispirato (per la cronaca, alla separazione dalla prima moglie Sara Lownds) da rappresentare ancora oggi un’autentica pietra miliare del cantautorato folk-rock. I dieci pezzi in scaletta sono tutti – tutti – memorabili, da Tangled Up in Blue a Buckets of Rain passando per Idiot Wind e Shelter From the Storm.

Un anno più tardi, Dylan non solo si mise in testa di pubblicare un nuovo album, l’ottimo Desire (1976), ma per l’occasione volle anche allestire un gruppo, con il quale dette poi vita alla celebre Rolling Thunder Revue. Nel disco spiccano bouzouki, fisarmonica e il violino di Scarlet Rivera a conferire fragranza vaudeville a pezzi epocali come Hurricane e Romance In Durango (poi ripresa anche dal nostro Fabrizio De André).

[Vai alla parte 2 – foto: ©BaronWolman]