Il frontman dei Marlene Kuntz pubblica il suo primo disco da solista, in un’edizione in vinile da collezione. Mi ero perso il cuore porta al centro la voce intimista del cantautore, che aspetta di poter tornare sul palco. Da solo

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Trent’anni di attività con i Marlene Kuntz, una delle rockband che ha segnato la storia della musica italiana dagli anni ’90 a oggi, più di 130 canzoni scritte, che non sempre lo vedevano protagonista, con lo sguardo di chi ha visto cambiare la musica. Oggi Cristiano Godano parla di sé e mette in queste nuove canzoni la sua voce e il suo cuore. Ed è proprio il cuore a dare il titolo all’album, diventando il centro della narrazione del disco, come unica soluzione ai demoni che affliggono la mente e da cui non sempre si può scappare.

Mi ero perso il cuore, come mai questo titolo?

Si usa dire che quando si è presi d’assalto dagli inviluppi della mente a cui poco per volta si cede, dando loro corda in maniera ossessiva, il rifugio sia tornare all’essenza della parte emotiva di noi stessi, dando retta al cuore per liberarsi dai pensieri. La frase appare nel brano che apre il disco, “La mia vincita”. Quando scelgo i titoli vado sempre a cercare se tra i testi che ho scritto c’è un’immagine che possa reggere l’arduo compito di rappresentare il disco. Non sempre la trovo. Questa volta sì, e ne rappresenta la narrazione.

Nella prima traccia parli di rinascita ma ti chiedi “chissà se durerà”. Da cosa arriva questo dubbio?

Il disco si apre con una canzone che è tendenzialmente positiva. Ho trovato la soluzione alle ossessioni ma so già che non può durare, diventa evidente nei brani successivi. È una consapevolezza di chi, in preda a demoni che si possono riunire sotto la parola magica di depressione, sa che ci sono momenti di up e di down.

Cantare da solo, scrivere da solo, è stata un’esigenza?

Ho cominciato a fare cose solitarie in spettacoli in cui portavo parole e musica, con un interlocutore a farmi domande. Suonavo pezzi dei Marlene. Ho iniziato a prendere confidenza col fatto di essere da solo sul palco. È nata un’esigenza di continuare a farlo, diventando man mano più pressante, senza però voler continuare a suonare i pezzi della band e senza interrompere più il flusso musicale. Ho voluto pensare a qualcosa di mio.

È stato diverso scrivere solo per te?

La differenza credo sia nell’immediatezza. In queste canzoni ci sono più io. Qui parlo io.

In queste canzoni si parla di ricerca, di amore, di anima, di consapevolezza, di significato dietro alle parole. Andare nel profondo dei pensieri è un bisogno artistico o personale?

Il periodo in cui ho scritto questi testi era di particolare acutezza, diciamo vulnerabilità, e si è rivelato un terreno fertile per la creatività. Credo sia più semplice sondare nel torbido piuttosto che esibire sentimenti di felicità conclamata. La felicità è meno spendibile.

Fare musica negli anni ‘90 rispetto a oggi: che bilancio fai?

È un po’ deprimente. Mi sembra che in questo momento non ci sia spazio per la visione idealmente artistica. La musica che si approccia alla propria sostanza creativa è fatta di ideali, ha nutrito la nostra generazione di musicisti. Ora è in disgrazia. Se fai musica in quel modo, a meno che tu non abbia una marea di pubblico, sei fuori dai radar. I dischi non vendono. Lo streaming paga oltre i 100 milioni… Ma chi li fa? La discografia studia come attirare l’attenzione dei ragazzi sui cellulari, con i singoli brani. È frustrante. Poi si fa lo stesso, ma il risultato è marginale.

Rimarrebbero i live, ora purtroppo fermi…  

Senza live è un dramma. Ed è molto difficile farlo capire alla gente.

 

 

 

 

 

IL DISCO

Mi ero perso il cuore  (Ala Bianca Group/Warner Music)  è un doppio vinile da 180 grammi, da collezione. 13 tracce più “Per sempre mi avrai”, la Lp bonus track. Canzoni nate per chitarra e voce, mostrano un artista fragile che non ha paura di cantare i propri demoni. L’impronta acustica rende il lavoro intimo, lasciando ai testi un’urgenza espressiva che risuona in una narrazione senza tempo. Co-prodotto dallo stesso Godano e da Gianni Maroccolo e Luca Rossi (Ustmamò), che insieme a Simone Filippi lo hanno anche suonato, accompagna la malinconia di chi ascolta e si rispecchia in chi canta.