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[Continua dalla parte 1 – di A. Valentini]

Il resto non ve lo sto a raccontare, ma il vero fulcro del libro è proprio questa decisione lancinante di fare piazza pulita – e di descrivere, con aneddoti e ricordi, i dischi più rappresentativi da cui si separava, man mano.

Per quanto terrificante, come prospettiva – in realtà ha un senso. Si collezionano i dischi, almeno inizialmente, per placare una fame di conoscenza e una passione per la musica (o un genere di musica). Poi diviene un gesto vitale, pari al procurarsi cibo e al riposare, perché semplicemente ci fa star bene rimanere con gli oggetti che rappresentano la nostra passione più totalizzante. E infine giunge il momento dei dilemmi: e se avessimo buttato alle ortiche tutto il resto per collezionare? Oppure – peggio ancora – che fine faranno i miei sforzi se, quando non ci sarò più, nessuno di cui mi fido avrà voglia o competenza di occuparsi dei miei dischi?

Dopo oltre 30 anni di collezionismo, mi sorprendo a fare questi pensieri. Che fino a un paio d’anni fa avrei considerato follie passeggere. Invece, alla fine dei conti, l’elefante è nella stanza, ma si finge di non vederlo. O meglio: la passione non ce lo fa vedere. Una passione che ho amato e amo ancora, per tutto ciò che a modo suo mi ha dato e può dare a chi la abbraccia.

Però inizio a pensare, come il buon Bob Suren, che a un certo punto, potrà essere salutare  tutti i dischi che amo e che mi interessano in un bell’archivio digitale, vendere le copie fisiche e pensare di trasferirmi metaforicamente in Perù o in Guatemala – insomma, cambiare. La collezione, in fondo, non è una condanna a vita. Anzi, forse è un – mi si perdoni la poca eleganza – investimento. Il più godurioso e maledettamente orgasmico possibile (con buona pace di palazzinari, giocatori in borsa e accumulatori di buoni postali).

Provate a dare un’occhiata Crate Digger e testate il vostro sentire. È una bella esperienza. Male che vada, avrete letto un po’ di storia di musica (punk) e vita vissuta.