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Il numero 11 di Vinyl, in edicola dal 15 gennaio 2020, avrà copertina e cover story tutte dedicate alla “the only band that matters”. Ossia i Clash. Per stuzzicarvi l’appetito, ecco un teaser speciale – riservato solo ai nostri lettori online (e quindi non presente nella rivista, dove troverete molte altre chicche e contenuti “made in Clash”).

Il 28 febbraio del 1984 (anno bisestile, per la cronaca) Joe Strummer con ciò che resta dei Clash fa tappa in Italia. Non è la prima volta nel nostro Paese per la band, che ha già tenuto alcuni concerti nel 1980 e 1981 per i fan italiani.

Abbiamo avuto il piacere di fare una chiacchierata con Antonio Bacciocchi – storico batterista dei Not Moving, ma anche agitatore instancabile della scena musicale italiana (sempre attivo con mille progetti) – per farci raccontare come è stato aprire per i Clash…

[a.v. – continua dalla parte 1]

So che il pubblico non reagì molto amichevolmente alla vostra comparsa sul palco… per quanto avete suonato? E come andò, alla fine dei conti?

Suonammo una mezz’ora, accolti dal boato prodotto da 12.000 persone che pensavano  fossero arrivati i Clash (non eravamo stati annunciati). E infatti incominciarono subito a insultarci e a lanciare bottiglie e altro (non c’erano, ai tempi, perquisizioni e limitazioni all’ingresso dei concerti). Lilith mandò affan**lo i 12.000 astanti e si scatenò l’inferno. Suonammo davvero male, sbagliando anche un po’ di cose, ma in quel momento eravamo nel nostro paradiso personale. Qualche giorno prima eravamo a suonare in un buco davanti a 50 persone… e ora su un megapalco, con i Clash a guardarci.

Domanda imbarazzante: vi pagarono? Vi offrirono qualche tipo di ospitalità (catering, alloggio, camerino/spogliatoio…)?

Zero assoluto. Ma ci eravamo abituati.

Raccontami il momento in cui siete saliti sul palco: cosa si prova a trovarsi davanti una simile marea di persone?

La cosa che mi stupì, anzi entusiasmò, è che avevamo i roadie che ci facevano strada nel buio con le torce e, professionalmente, ci accompagnarono sul palco. Cosa provammo? In quel momento capimmo che quella era la nostra strada, che su un palco, qualunque fosse, ci trovavamo bene, che era la nostra dimensione, la nostra vita e che da lì non saremmo mai voluti scendere. E infatti 35 anni dopo sempre lì siamo…

So che qualche anno dopo incontrasti Strummer per strada a Londra e lui fece finta di ricordarsi di voi… vuoi raccontarmi l’aneddoto?

Lo incontrai a Camden una notte. Mi palesai, lui fece finta di ricordarsi di me, del gruppo e del concerto e mi invitò ad andare in un pub il giorno dopo. Mi presentai, rimasi per un’ora ad ascoltare un ignobile gruppo pensando che Joe mi avesse preso in giro, per scoprire poi che c’era una stanza sottostante dove, una volta sceso, trovai Strummer, alcuni membri di Damned, Little Steven (!) e altri volti noti della scena punk. Restai un po’ lì, Joe mi salutò: due parole, ma per me resta un ricordo indelebile. Anche Dome [La Muerte  chitarrista dei Not Moving – nda] lo incontrò, un po’ di tempo dopo, e pure lì disse di ricordarsi di noi. Ma Eddie, il roadie che ci portò a suonare con loro, confidò a Dome: “Dice la stessa cosa a tutti, ma non si ricorda niente”.

London Calling ha compiuto 40 anni da poco. Cosa pensi di questo album? E qual è il tuo preferito – se ne hai uno – nella discografia dei Clash?

London Calling è da tempo immemore nella mia triade di migliori album di sempre (Abbey Road e Quadrohenia gli altri due), ma se la gioca con Sandinista che trovo più affascinante, visionario, completo. Quando uscì fu illuminante perché proponeva una via di uscita dal punk a cui ero da poco approdato con i miei Chelsea Hotel e che già mi stava “stretto” da fan di Who, Beatles e Jam. London Calling diceva in pratica che si può fare punk anche suonando bene, pulito, senza necessariamente sputare sul pubblico. E rimanere lo stesso punk.