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Il numero 11 di Vinyl, in edicola dal 15 gennaio 2020, avrà copertina e cover story tutte dedicate alla “the only band that matters”. Ossia i Clash. Per stuzzicarvi l’appetito, ecco un teaser speciale – riservato solo ai nostri lettori online (e quindi non presente nella rivista, dove troverete molte altre chicche e contenuti “made in Clash”).

Il 28 febbraio del 1984 (anno bisestile, per la cronaca) Joe Strummer con ciò che resta dei Clash fa tappa in Italia. Non è la prima volta nel nostro Paese per la band, che ha già tenuto alcuni concerti nel 1980 e 1981 per i fan italiani.

Quella data milanese vede la presenza di un gruppo ospite ad aprire la serata: i Not Moving, band emergente che già aveva attirato le attenzioni di molti addetti ai lavori e appassionati. Il loro sound è peculiare, si riaggancia al mood di gruppi come Cramps e Gun Club, con molti riferimenti al punk, ma anche al sound del rock australiano e ad atmosfere più roots-blues.

Abbiamo avuto il piacere di fare una chiacchierata con Antonio Bacciocchi – storico batterista dei Not Moving, ma anche agitatore instancabile della scena musicale italiana (sempre attivo con mille progetti) – per farci raccontare come è stato suonare con i Clash…

L’intervista

Inquadrami il momento: era febbraio del 1984. Cosa stavano facendo i Not Moving?

Eravamo appena usciti da un primo momento di (relativa) notorietà con i primi due EP e stavamo per registrare il primo mini LP Land Of Nothing. Un disco sfortunato perché fu inciso in uno studio super professionale dal fonico di Patty Pravo e Exploited (!) che ci diede delle sonorità incredibili per i tempi. Ma il disco non uscì per beghe burocratiche. Ci consolammo con aprendo per Clash, Johnny Thunders e Celibate Rifles in quell’anno e con un concerto al Loft di Berlino con Litfiba, Pankow e Monuments

Come nacque la vostra chance di aprire per i Clash?

Un roadie (e grafico, suo il logo con la stella di Combat Rock), Eddie King, della band ci chiamò la mattina stessa del secondo concerto milanese per chiederci se ci interessava. Tra l’altro avevamo previsto di andare a vedere il concerto. E ci ritrovammo invece sul palco.

Raccontami come è stato il vostro arrivo al Palalido. Come siete stati accolti dallo staff dei Clash?

Diciamo che per uno staff di roadie, tecnici e fonici doversi occupare anche di un gruppo di ragazzini italiani invece di bersi una birra in più in santa pace non era una prospettiva poi così entusiasmante. Furono, eufemisticamente, un po’ sbrigativi e bruschi. Ma a noi non ha mai fatto paura nessuno (incoscienza giovanile, arroganza punk, gusto per la sfida), per cui facemmo buon viso a cattiva sorte, un soundcheck di due minuti e suonammo senza tanti problemi.

Avevate accesso al backstage? Che aria si respirava dietro alle quinte?

Si, eravamo nel backstage. Tutto molto tranquillo, musicisti cordiali – in particolare i tre sconosciuti “non Clash”, sostituti di Mick e Topper. Ma anche Paul Simonon, che ci rassicurò e chiacchierò. Molto più schivo Joe. Ma ho letto in seguito che stava morendo sua madre e che era in un periodo un po’ “eccessivo”.

Avete avuto modo di interagire con qualche componente della band, prima o dopo il concerto? Se sì, in che modo?

Come detto con Paul fu tutto molto tranquillo. Ci diede una pacca sulla spalla con tanto di “Good luck” prima di salire e seguì parte del nostro live. Joe invece si vide molto poco.

[a.v. – Continua con la parte 2]