Il 12 ottobre del 1969, dopo l’uscita del disco finale dei Beatles, Abbey Road, un simpatico dj lancia in orbita la notizia della morte più misteriosa e improbabile della storia del Rock. Che poi ha fatto moda, ha venduto milioni di copie ed è stata replicata in tanti modi diversi… di morire.

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Vivi e lascia morire. È il celeberrimo adagio di James Bond, scritto e musicato proprio dal vivissimo – o morto? – Paul McCartney nel 1973, al suo primo successo da solista. Ma è davvero Paul a cantare quella canzone? O invece si tratta di William Campbell, il sosia che ne ha preso il posto e che ha deciso una volta per tutte di dire addio al suo anonimo passato per abbracciare definitivamente la personalità e la vita dello scomparso Paul? Secondo questa ipotesi, la fatidica e presunta data di morte del vero “Macca” risale al novembre del 1966, quando Paul, irritato per una divergenza con i suoi compagni, John, George e Ringo, decide di allontanarsi dagli studi di Abbey Road dove era in corso la registrazione di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Paul allora sarebbe salito a bordo della sua Aston Martin allontanandosi in gran fretta. Sulla strada, però, dopo aver raccolto una giovane autostoppista di nome Alice, accade il peggio: Paul ha un incidente e muore sfigurato e decapitato. La decisione immediata del suo entourage è quella di non rivelare nulla alla stampa e al mondo intero. La morte del bassista dei Beatles (nato a Liverpool il 18 giugno 1942), passa quindi sotto silenzio e il “Macca”, per ovvi motivi di interesse, viene rimpiazzato da un sosia, forse un attore sconosciuto di nome William Campbell, grazie a una delicata plastica facciale.

Dal 1966 in poi, i Fab Four continuano quindi come se niente fosse, mentre il presunto “Macca” firmerà – insieme a Lennon – molte delle canzoni dei Beatles composte dal ’67 al ’70, per non parlare dei tantissimi album pubblicati da solista dopo il 1970 (l’ultimo dei quali è attesissimo in tutto il mondo mentre scriviamo). Insomma: il “Macca” che oggi tutti conosciamo sarebbe una copia venuta meglio dell’originale. Tutto può succedere. Anche perché questa leggenda è stata accuratamente alimentata nel corso degli anni da critici, fan e appassionati, e gli indizi a suo favore oggi sono tantissimi, a fronte di poche smentite, tra le quali figura l’album solista del 1993, intitolato appunto Paul is live, con una copertina che a sua volta si prende gioco dell’indizio più famoso, la copertina di Abbey Road.

In mezzo a un numero infinito di prove, spiegazioni, ipotesi e confutazioni, ecco l’indizio principale: la copertina di Abbey road, dove i Beatles attraversano le strisce pedonali in fila, come in un funerale. John Lennon è in testa vestito di bianco, come un officiante, seguito da George vestito di nero, da Paul che è l’unico a piedi nudi (così come in certi casi si seppelliscono i morti) e l’unico fuori passo rispetto ai compagni e, infine, da Ringo, nei rozzi panni di uno scava fosse. A rafforzare questa simbologia funebre ecco altri dettagli: Paul fuma con la destra, mentre si sa che è mancino (quindi nella foto non è lui), mentre sul lato sinistro della strada è parcheggiato un maggiolino (Beatle appunto) con la targa LMW 28 IF, dove LMW significherebbe Linda McCartney Widowed, ovvero che la moglie di Paul è rimasta vedova, mente 28 IF sarebbe l’età di Paul se fosse vivo. Dopo questa rivelazione, lanciata nel 1969 via radio in tutto il mondo, emergeranno altre centinaia di prove e messaggi sulla presunta morte di Paul. Tra tutte spicca ancora una volta una copertina, quella di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, che sarebbe proprio un monumento funebre alla memoria di Paul (e un segno di rimorso dei suoi compagni): tra i fiori posati sulla tomba, si vede una chitarra basso mancina come quella di Paul, mentre Paul indossa un abito con la sigla OPD, in inglese “Officially Pronounced Dead”, accanto alla medaglia britannica al valore. Sul retro Paul è l’unico voltato di spalle, mentre mettendo uno specchio sulla gran cassa al centro della copertina la scritta che si legge sarebbe I ONE IX HE DIE, traducibile come “il 9 novembre lui è morto”.

Vera o presunta, proprio dopo quella di Paul, la morte delle rockstar in circostanze misteriose diventerà un evento cult, un classico della storia del Rock, generando una vera e propria emorragia soprattutto a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, tanto che oggi difficilmente qualcosa potrà ancora stupirci: morti drammatiche, riti satanici, delitti, vite spezzate e perfino mondi alieni, come quelli tirati in ballo per la morte di Elvis Presley nel 1977.

Ecco i principali protagonisti del genere: Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison e Brian Jones, su fino a Sid Vicious, Ian Curtis, Keith Moon, Kurt Cobain, Nick Drake, Cliff Burton e così via (compresi due italiani, Luigi Tenco e Lucio Battisti), passando ovviamente per l’altro Beatles, John Lennon, misteriosamente assassinato l’8 dicembre 1980 da uno squilibrato venticinquenne di nome Mark Chapman che prima di sparare gridò: “Ehi, Mr. Lennon! Stai per entrare nella Storia”.

La morte, perfino quella presunta e poi smentita di Syd Barrett o quella negata di Paul McCartney, sembra quindi l’epilogo più alto di una musica “bella e dannata”, appartenente a un mondo diverso e terribile, il cui destino è quello, come diceva Ronnie Van Zant, di “vivere in fretta, lavorare duro e crepare giovani”. Un destino che il rock sembra avere scritto nel suo dna fin dalle origini, ovvero da quel tragico 3 febbraio 1959, ricordato come “The day that music died”, quando in un solo incidente aereo morirono tre musicisti, Buddy Holly, Ritchie Valens e Big Bopper. Da allora, però, il gioco o, meglio, i giocatori si sono fatti prendere la mano e la “final solution”, l’uscita di scena più grandiosa possibile, è diventata richiestissima dai protagonisti così come dai fan, che mai sembrano sazi del suo potere definitivo, l’unico che possa garantire eterna gioventù e gloria alle sue vittime, altrimenti destinate a invecchiare, e declinare, in modo patetico o perlomeno imbarazzante.

Ma Paul McCartney che cosa c’entra in tutto questo? C’entra perché lui è il perfetto rovescio di questa medaglia, ovvero la rock star che non doveva morire, e che essendo tuttavia morto per una circostanza sfortunata tanto quanto assurda, ha dovuto continuare a vivere nonostante tutto, affinché il suo destino – e quello dei Beatles – si potesse compiere fino in fondo. Prova vivente del potere senza ritorno che genera la musica Rock, una musica che, come ha recentemente scritto Michael Niemi, sembra una strada percorribile in un solo senso, la cui energia spicca nettamente sull’aridità del resto del mondo, permettendo a chi vi entra di uscirne solo proseguendo il viaggio fino in fondo. Là dove si trova la Fine.