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Il loro nuovo album si chiama Vivi per sempre e riflette sulla velocità con cui tutto si consuma. Nove tracce da ascoltare in vinile, il supporto che più rappresenta l’ascolto, per loro.

di Silvia Gianatti
intervista integrale pubblicato su Vinyl n.8 (maggio 2019)

Milanesi, amici da tanto, la loro storia ha inizio in quella sala prove in cui sono stati chiusi per anni, con la musica come collante dell’amicizia e la determinazione come spinta.
Fino al primo disco, Avete ragione tutti, che a fine 2016, tra melodie catchy e la scrittura schietta di Matteo Mobrici, il cantante della band, li porta a girare l’Italia in più di 100 concerti, da Nord a Sud.

Un esordio rumoroso che porta il nome della band a posizionarsi tra i più influenti della nuova scena indie italiana, fatta prevalentemente da artisti romani.
Eppure non amano definirsi indie, né pop. «Facciamo il genere canzone», dicono quando li incontriamo a Milano, la loro città, che ritorna in Vivi per sempre, questo secondo album, uscito a marzo, che ha già visto una prima parte di tour riempire i club a squarciagola.

Partiamo dal titolo del vostro album, perché Vivi per sempre?
In un momento come questo, dove tra internet e vita ormai è tutto molto veloce, dove si vive alla giornata, anche nei rapporti, ci piaceva l’idea del contrasto che crea l’idea dell’immortalità in un mondo molto mortale.

Lo avete voluto in vinile e, se postate sui social, postate il vinile. Ci tenevate molto?
Avere il disco in vinile era proprio un nostro desiderio. Fin dalla scelta della copertina, ci chiedevamo come sarebbe venuto in vinile. Anche i nostri fan sembrano aver apprezzato, in molti hanno comprato il disco, anche solo come oggetto da collezione. Vero è che quest’album non è una raccolta di singoli, non è una playlist, ma un insieme di canzoni nate in momenti diversi e scelte perché stavano bene una dopo l’altra. L’ordine delle tracce è voluto, pensato. L’ascolto senza skippare è quello consigliato. E quindi il vinile è perfetto.

Voi ascoltate musica in vinile?
A casa principalmente solo così. È una cosa che ci piace e che ci portiamo dietro da sempre. Abbiamo iniziato tutti da subito ad ascoltare i vinili. Non siamo nati con le playlist, al massimo facevamo le cassette o i Cd con le nostre canzoni preferite, ma ai compleanni chiedevamo gli album. Siamo fan dell’oggetto, del packaging, delle scritte dietro.

La copertina come è stata scelta?
Cercavamo un’immagine che andasse a rappresentare il contenuto, un volto che avesse tanti sentimenti. Il comune denominatore di questo disco è la vita e nella vita ci sono molti sentimenti, brutti o belli che siano. E allora ci siamo messi a cercare una foto su Instagram, come già avevamo fatto per il primo album. È il posto migliore per trovare foto spontanee. Avevamo più di cento fotografi e, ma questo cane ci è rimasto in testa. Ha in sé espressioni contrastanti. Abbiamo contattato l’autrice, in pochi giorni abbiamo stampato.

Vi siete trovati al centro dell’esplosione di un genere. Che effetto fa?
È stata la nostra grande fortuna. Abbiamo fatto uscire un primo disco nel momento giusto, per puro caso. Quando lo stavamo registrando eravamo sicuri di stare facendo una cosa per noi, mai avremmo pensato di essere presi come modello per quello che stiamo riuscendo a fare ora. È stato tempismo, puoi essere bravo quanto vuoi, ma se non è il momento giusto… Che poi è così da sempre nella musica, ma pure nella vita.

Siete tra i pochi della nuova scena italiana “non di Roma”.
Il grande dispiacere è che Milano non abbia quello che ha Roma, che forse arriva dall’aver seminato negli ultimi vent’anni. A Milano si guarda più se stessi, si collabora poco. Non si sente l’identità con la città. Non c’è un circuito base da cui partire, per proporre qualcosa che venga ascoltato con ricettività. Ci sono pochi locali, noi ci abbiamo suonato, vuoti. Dove ci chiedevano i sei euro per le pizze mangiate, alla fine. Ma ci ha fatto bene. Siamo partiti con la frase «Non vi aspetta nessuno», siamo sempre stati consapevoli del fatto che, se lo facevamo, era per noi.

Influenze?
Siamo cresciuti attratti dal carisma del Brit pop, da quella musica che riprendeva gli anni ’60 e ’70, di spessore. Dall’Inghilterra arrivavano le super band. Eravamo affascinati dall’aspetto della musica di gruppo che in Italia è sempre stata minore. La forma canzone, sposata alla band, loro la facevano benissimo. Cercavamo quella cosa lì. Dagli anni ’60 e ’70 invece, alla fine, rimane tanta Italia. Da Battisti a Rino Gaetano, De Gregori, Tenco… Li ascoltiamo ancora oggi come fossero contemporanei. Poi i Beatles, monopolio totale. Ma anche Who, Doors, più avanti The Strokes, Coldplay, Oasis. Abbiamo cercato di rubare le cose che ci piacevano. La musica è solo un passaggio di testimone. Lo si vede anche nel film dei Queen. Elvis era l’idolo di John Lennon. Lennon di Freddie. Sono tre giganti, la musica è un passaggio.

[foto via @Canovalaband]