Il cantautore romano che parla più con la musica che con le parole si è impossessato della scena musicale italiana nel giro di tre anni. Il suo Evergreen è anche in vinile

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È il 2015 quando il nome Calcutta inizia a circolare tra gli addetti ai lavori. Si parla di un nuovo autore, di una penna diversa, prorompente, di una voce graffiata che inizia a imporsi nella scena romana. Parte tutto da lì, dai piccoli locali dove, dopo Forse, un primo album del 2012, senza major alle spalle, senza talent show, solo con una chitarra e canzoni nate dentro a una camera e un passaparola travolgente, il giovane cantautore rimette in moto il movimento “indie” di cui oggi tanto si parla e che domina le classifiche italiane. Quando esce Mainstream, album dal titolo decisamente propiziatorio, per Edoardo D’Erme, questo il suo vero nome, tutto cambia. Arriva la popolarità, i locali della capitale diventano un tour in giro per l’Italia e le sue canzoni vengono cantate a squarciagola. Ogni sua apparizione live diventa un piccolo evento. Complice un’estate all’insegna del suo brano Oroscopo, è fatta. Tutti ora sanno chi è e in tanti in lui si riconoscono. Dai giovani che vivono il precariato quotidiano agli innamorati che prendono in prestito le frasi di canzoni che molto spesso parlano d’amore, a chi di certezze non ne ha e, in questo suo linguaggio che racconta la vita, si riconosce. Quando esce Evergreen, il suo ultimo lavoro disponibile in versione vinile, verde come il colore della copertina, i suoi concerti vanno a riempire lo Stadio di Latina e l’Arena di Verona, le due location sold out in cui ha suonato quest’estate. In attesa del prossimo tour che lo vedrà in giro per l’Italia da gennaio 2019.

Lo incontriamo in un albergo milanese, in uno dei tanti passaggi promozionali. È sempre restio a parlare a lungo di sé e della sua musica, non è uno che ama dare spiegazioni o raccontare. Preferisce far ascoltare. Eppure, se gli dai tempo, trova anche il modo di farlo. Non è mai chiara la linea di confine tra modo di essere e modo di fare, il suo essere evasivo o non voler davvero raccontare, ma se è oggi uno degli artisti più promettenti del panorama musicale italiano, è anche per questo suo essere così.

Evergreen ha una cover che ti ritrae con un gregge di pecore. Come sei finito lì in mezzo?
Non si sa se ci sono andato per caso o se era uno scatto voluto. Ci sono varie leggende a riguardo. Per me è più importante il mito della storia, meglio che le cose rimangano leggendarie. Posso però dirti che la pecora nera è lì per caso, non è stata una mia scelta.

Ha un significato?
Non voglio dare mai un significato alle cose. È come se chiedi a uno che fa il prestigiatore i suoi trucchi. In quell’immagine ce ne può essere più di uno e sicuramente ce ne è uno per me, che è personale. Volevo solo fosse una bella cover e sono soddisfatto. Se questo quadrato deve rappresentare il disco, lo fa bene.

Come sei arrivato a queste canzoni?
Ho subito l’aspettativa di dover fare qualcosa dopo Mainstream ma pensavo sarei stato peggio, a livello di pressione. So che è una giostra e che un giorno ci salirà qualcun altro al mio posto. Ho rischiato di cascare in un vortice di aspettative poco produttivo. Ho sentito lo stress, eppure non è andata così male. Non sono tutte canzoni nuove, alcune c’erano già, stavano lì, buttate. Altre erano anche già su internet perché le avevo suonate nelle scalette di vecchissimi miei concerti a chitarra e voce. Un sacco di gente mi ha scritto perché le mettessi nei dischi. Quindi le ho riprese e completate. Poi ci sono tutte quelle che ho scritto e scelto perché stavano bene insieme.

È così importante che le canzoni stiano “bene insieme”?
Se non succede, non faccio il disco. Quelle di Evergreen hanno tutte un’atmosfera retrò. Ho tolto tanti pezzi che non stavano in pendant, non volevo creare un’accozzaglia di stili.

Una delle critiche che ti muovono più spesso è che nei tuoi testi usi le parole “a caso”.
Non scrivo mai a caso. C’è sempre un sapore ben definito, mai vago. Nelle mie canzoni ci sono io che parlo a qualcuno, se non ci sei dentro è normale che tu non capisca. È come quando ascolti una discussione senza sapere di che cosa si stia parlando. Eppure le emozioni ti arrivano. Dare questo taglio alle cose per me è fondamentale. All’inizio critiche così mi ferivano. Le parole sono molto più di un suono, danno il senso alle cose. Ci sono frasi di senso compiuto. È poesia. È una cosa di fantasia.

Non ci sono messaggi?
La musica non dà insegnamento. Paracetamolo è nata quando ero a casa di un amico. Mi sono messo al pianoforte, cantavo l’inizio della canzone. Fine. Ho capito che lì dentro c’era qualcosa di più, che mi stava piacendo. Spesso sento un’emozione e capisco che mi può portare da un’altra parte. Ho sempre cercato il suono giusto, la parola giusta.

Perché in quasi tutti i tuoi testi c’è l’amore al centro?
Mi piace la conversazione, è tutto molto confidenziale, tutto detto all’orecchio. Per ora mi piace fare così, ecco perché mi viene facile parlare d’amore. Ma spero di non essere così romantico nella vita vera.

Scrivevi anche da piccolo?
Ogni tanto. Mia madre me lo racconta. Però no, prima di “fare Calcutta” ho sempre tenuto a bada i miei istinti artistici. Prima di me non mi piaceva mettermi in mostra. Magari andavo in saletta prove e spaccavo, ma non riuscivo a ingranare. Mi è sempre mancata la struttura nelle cose che faccio. Lavoro molto bene da solo o comunque con persone che devono essere molto malleabili. Non avrei mai potuto fare un talent show in televisione anche per questo. Il ragazzo che ci va ha una visione lucida, un progetto, molto più programmatico del mio. Eppure ero convinto delle mie potenzialità. Ho sempre pensato che il giorno in cui mi sarebbero servite, le avrei tirate fuori.

Volevi fare questo lavoro?
Non me l’aspettavo così, non avevo fatto corsi, non avevo letto niente a riguardo. Che devi parlare della tua vita lo scopri dopo. Devi rappresentarti. Non ero preparato. Comunque va bene. In realtà io volevo fare l’autore, ma adesso non ho più voglia. È come se scrivere per gli altri fosse un ripiego.

Ti ricordi il primo disco che hai comprato da solo e il primo concerto a cui sei andato?
Non ricordo il primo vinile, ma ricordo il primo concerto. È stato Pino Daniele con mio padre.

Cos’è per te la musica in vinile?
Musica gommosa che riempie le pareti. Prodigio analogico, mistero della natura.

Quanto il supporto influenza l’ascolto, per te?
Cerco di non pensarci, di mettere a tacere il mio lato audiofilo, anche se a casa ho delle buone casse con le quali ascolto Mp3, cassette e vinili senza problemi. Purtroppo non ho nulla per risentire le vecchie playlist masterizzate su Cd, sarebbe un bel viaggio nel tempo. Per quanto l’analogico suoni meglio per certi versi e soprattutto su certi impianti hi-fi, nessuno potrà mai togliermi la nostalgia di un Cd che salta proprio sul più bello.

Possiedi vinili?
Molti, anzi moltissimi. Ho collezionato vinili fino a qualche anno fa, ero un lupo da mercatino.

Chissà dove sono ora?
Sappiamo che non hai una casa da un po’…
Non ho una casa e non so ancora dove andrò a vivere. Non mi serve adesso. Con tutte le cose che ho da fare sono sempre in giro. In albergo, anche se preferisco le case perché puoi cucinare la cena da solo. Cucinare è l’unica cosa che mi spinge ad arrivare a fine serata. Ho imparato da mia nonna. Torni a casa e ti fai uno spaghetto.

Live appena conclusi, tour in partenza. Ti piace la dimensione dei concerti?
Sì. Alla fine io mi lamento di tutto, dipende molto da come sto quel giorno. Di media sono sempre felice e allegro e la butto sulla cazzata. Però capita anche che veda tutto nero. I concerti rimangono una bella festa.

Ci sono canzoni che ami particolarmente?
Dell’ultimo album Pesto. È per l’emozione di quando l’ho scritta. Mi è piaciuta subito, ero euforico, dentro a un periodo positivo. Ero spinto da qualcosa, era estate… Poi Hubner, come il calciatore che ha vissuto la popolarità in maniera buona. Siccome in questo periodo sto togliendo tanto tempo alle persone a cui voglio bene, la sua storia mi ha colpito molto. Lavora al bar con la moglie, ora.

Il disco Evergreen
Un disco curato e difficile perché arriva dopo il successo. Dieci canzoni legate da un filo conduttore di gusto retrò, storie (Hubner), intermezzi melodici (Dateo), ritornelli gridati (Pesto) e cambi di rotta all’interno della stessa canzone (Paracetamolo). Stupisce il coraggio di non seguire la via “semplice” delle canzoni che lo hanno reso famoso. Se Calcutta ha visto cosa funziona, Calcutta fa altro. E, straordinariamente, funziona lo stesso. Al centro rimane lui, con le sue parole, rimane la voglia di fare luce su una quotidianità normale, trovando slogan che funzionano. Evergreen è un disco complesso, scritto da chi sa suonare e raccontare, senza la pretesa di dover confermare un successo che arriva lo stesso.