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Dal Rolling Thunder Revue a Desire, la rinascita sotto la maschera

[di Federico Pucci – articolo integrale pubblicato su Vinyl n.10 / continua da Bob Dylan: il mito e la menzogna – pt. 1/2]

Eppure portare in scena un racconto non è cosa da poco: certo, Bob chiama il drammaturgo Sam Shepard, ma ci vuole un’idea di fondo per superare la dicotomia tra realtà e finzione.
Come rispolverare la rivista teatrale, un carnevale perfetto per la controcultura e per i nostalgici.
A parte rarissime eccezioni, lo spettacolo itinerante avrebbe visitato un’America di piccole città, più che di mercati, quelli che avrebbero pagato di tutto per rivedere Dylan.

Dopo aver mescolato Woody Guthrie con poesia beat e anfetamina, ora l’artista vuole rifondare il mito americano con la messinscena della commedia dell’arte, con la sua capacità di toccare l’uomo, uno per uno.
Perché nel 1975 tutti, sopra e sotto il palco, portano una maschera, tutti interpretano un ruolo, a partire dal menestrello con il volto coperto di biacca.

«Come gather ’round, people» è l’invocazione del trovatore folk che, come un adeo, compone a braccio per la gente che ha davanti: Dylan chiama un’America di individui e paesi, per raccontarle un epos senza fine, le sue tragedie.
Come quella di Rubin ‘Hurricane’ Carter, il pugile ingiustamente accusato di omicidio al quale Dylan dedica un’indignata ballad.

Quel resoconto, diventato la canzone Hurricane poi finita in Desire, è cinematografico: ancora oggi si potrebbe rivedere The Hurricane con Denzel Washington, seguendo la trama con i versi di Bob. Se Highway 61 Revisited o Blonde On Blonde contengono geniali sprazzi da film sperimentale, da Blood On The Tracks in avanti Dylan cerca di portare a maturazione una scrittura più classica, narrativa, senza rinunciare del tutto al suo simbolismo.

Per questo Desire viene scritto quasi interamente con il drammaturgo Jacques Levy: l’intenzione è portare all’esasperazione la forma racconto più che la forma canzone. Ecco allora le maratone Isis, Joey, Romance In Durango, dove l’amore o la fuga non sono più narrati di scorcio, ma per filo e per segno, come una sceneggiatura che si dipana.

Ma esporre con precisione una storia, obbedire alle sue verità morali, non implica rinunciare alla finzione, anzi.
Il carrozzone di Rolling Thunder Revue ci insegna il potere psicologico e sociale della recitazione: bisogna saper fingere, perché il mito diventi rituale e ricomponga la comunità.

Le società conferiscono potere a chi imbraccia una chitarra, è perché questi sanno caricarsi sulle spalle il peso di ciò che è vero e ciò che è falso, per distillarne mito.
Come le sovraincisioni non rendono meno “onesti” i Basement Tapes, così la messinscena teatrale non affievolisce la portata di quel tour: al contrario, rivela l’intenzione originale, una catarsi nazionale, costi quel che costi.

Anche Bob Dylan, come tutte le leggende, non si dà senza menzogna. Martin Scorsese ha voluto metterlo in chiaro riempiendo di fandonie il suo “documentario”, consapevole che già in partenza quel tour fosse costruito su un inganno: non era lui a tornare, era un Paese intero.

In un celebre paradosso, il filosofo cretese Epimenide dice «tutti i cretesi sono bugiardi». Quando Dylan torna in scena per dichiarare che i cantautori siano tutti attori, la sua intenzione non è solo meravigliarci: è convincerci ad ascoltare ancora con attenzione.

[foto Facebook Bob Dylan, di Ken Regan]