Condividi su

Il fondatore del Banco del Mutuo Soccorso, Vittorio Nocenzi, tra i padri del rock progressivo a livello internazionale, ha ancora voglia di raccontare grandi storie in musica, come dimostra l’ottima qualità dell’album Transiberiana della rinnovata formazione della band. Lo abbiamo intervistato, per parlare del presente e del passato, perché «senza memoria non c’è futuro»

[di Guido Bellachioma – articolo integrale pubblicato su Vinyl n.10 / continua da Banco del Mutuo Soccorso: un gruppo nato libero – pt. 1/2]

Un “programma” artistico che per voi non ha data di scadenza… è iniziato con il Salvadanaio e continua con il nuovissimo Transiberiana.
«La ricerca espressiva del Banco continua. Oggi c’è più che mai bisogno di riscoprire gli ideali di riferimento, in opposizione alla superficialità del periodo in cui viviamo. Dobbiamo rimettere l’individuo al centro della nostra attenzione, dobbiamo scoprire un nuovo umanesimo, perché c’è troppo materialismo e consumismo. Non è più accettabile che i soldi siano considerati l’unico valore di riferimento: è falso. Noi siamo principalmente realtà spirituale; abbiamo bisogno di sogni, di speranze, di fratellanza e di evitare fanatici integralismi. Per me questo è l’inchiostro più adatto per scrivere musica. Transiberiana è la metafora della vita. Le differenze con il Salvadanaio? La cornice del contesto sociale è diametralmente opposta. Anni ’70: l’utopia. Anni 2000: la globalizzazione grigia della finanza».

Chi erano i tuoi punti di riferimento musicali?
«Da ragazzo avevo ascoltato il primo album omonimo (1967) dei Vanilla Fudge e ne rimasi affascinato. Le loro canzoni avevano delle basi ritmiche entusiasmanti, pulsanti come niente altro che avessi già sentito. Il secondo album di Joe Cocker, del 1969, era un altro dei miei preferiti. Vi spiccava lo stratosferico pianista americano Leon Russell. Il suo piano sostituiva la chitarra ritmica negli arrangiamenti e lasciava allo strumento a corde il ruolo di solista. Ricordo che da quell’album scaturì l’idea di come utilizzare le nostre due tastiere: il pianoforte con il ruolo di conduttore, sia ritmico che armonico, la chitarra e l’organo Hammond strumenti solisti a dialogare con la voce. Era nata l’idea della formazione e del suono del Banco del Mutuo Soccorso».

In quegli anni è arrivata anche una maniera diversa di godere delle musica, non più solo a livello individuale, ma collettivo. L’Italia ha avuto i suoi Woodstock?
«Certo che sì! Il Festival di Caracalla a Roma del 1970-1971 fu per le band del Centro-Sud italiano l’epicentro di un terremoto generazionale. A Caracalla ascoltai per la prima volta suonare Rodolfo Maltese, incontrai Marcello Todaro mentre partecipavo al Festival con la prima formazione del Banco, fatta da tutti musicisti dei Castelli Romani. A differenza di Rodolfo, Marcello accettò subito il mio invito a entrare nel Banco, perché il chitarrista di allora, Claudio Falco, doveva lasciare la band per il servizio militare. Erano i primi festival rock che si vedevano in Italia, era qualcosa di assolutamente inedito come atmosfera ed esperienza di vita, era tutto così esaltante. Il futuro sembrava a colori e pareva che bastasse allungare la mano per afferrarlo solidamente».

Forse, è quello che manca oggi, la voglia di credere che tendendo la mano un futuro diverso sia raggiungibile.
«Negli anni ’70 c’erano più sogni, nonostante ci fosse un’arretratezza culturale generale superiore a oggi (per mancanza di esperienze dirette, condivisioni, confronti e comunicazione). C’era la mancanza dei grandi viaggi e degli incontri con altre culture. I media erano arretrati rispetto a oggi, non potevano fornire visioni del mondo così ravvicinate e tangibili. È come pensare a un panorama che puoi vedere dalla vetta di una montagna in una giornata limpida, e allo stesso panorama in una giornata di nebbia. È un mix fra inside e outside: come stato d’animo c’era una diffusa curiosità verso il futuro unita alla voglia d’incontrarlo, convinti di poterlo cambiare. E l’esterno risultava disponibile ai cambiamenti, nonostante le ovvie reazioni retrograde e conservatrici. Molti degli adulti vedevano con simpatia e solidarietà il desiderio di rinnovamento dei giovani, che era una richiesta lecita: quello che non avviene più oggi. Ai nostri ragazzi, a forza di rubare tutto, non abbiamo lasciato neanche la possibilità di sperare in un futuro migliore. È terribile vederli sconfitti prima ancora di provare a ottenere qualcosa.
I genitori, che uscivano da un’epoca in cui l’80 per cento degli italiani era analfabeta, credevano fortemente che lo studio avrebbe potuto dare ai loro figli una migliore chance di vita. Insomma la speranza aveva tanti fan, fra i giovani e i meno giovani. Non avevamo ancora letto e capito Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, con il suo passo terribile: «Che tutto si trasformi perché nulla cambi».

Torniamo alle emozioni della musica, che sono prima di tutto quelle vissute dal vivo…
«La prima immagine che mi viene davanti agli occhi è l’esecuzione integrale dell’album …di terra all’Arena di Milano nel 1978: Banco, orchestra sinfonica, impianto audio-luci dei Pink Floyd. Al termine del concerto la gente era in piedi, esaltata e fuori di sé. Cinquemila palloncini colorati si alzarono in cielo, seguiti da fari speciali da 5.000 watt ognuno: uno spettacolo liberatorio finale che ci fece volare tutti. Noi eravamo arrivati vivi alla fine di un momento molto impegnativo, il pubblico non aveva visto prima niente di simile. Una emozione totale così profonda da lasciarci senza fiato. È il potere segreto della musica».

[foto Facebook Banco del Mutuo Soccorso – Official]