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Recensione pubblicata su Vinyl n. 6 (febbraio 2019)

Anderson .Paak, Oxnard
etichetta: Aftermath/OBE/12 Tone/ADA

voto: ****

A nord di Los Angeles, sotto una catena di colline che scendono al mare dove si coltivano fragole e fagioli, sorge la città di Oxnard. Tra la fine degli anni ’70 e gli ’80 qui sono fiorite band punk hardcore: la chiamavano scena Nardcore, e sposava cultura degli skater e dei surfisti, gente furiosa come gli Ill Repute. Stesse strade, ma diversi beat quelli di Madlib, uno dei produttori e rapper più influenti nell’hip-hop, tra i profeti delle contaminazioni jazz.

«Mescolare Coltrane e Cobain» non a caso è uno degli intenti professati da un altro figlio di Oxnard, Brandon Paak Anderson detto Anderson .Paak, che ha intitolato Oxnard il suo terzo album, ultimo capitolo di una trilogia sulla costa californiana dopo Venice e Malibu, uscito a novembre e distribuito in vinile da gennaio.

Chi ha avuto la fortuna di vederlo dal vivo con i suoi Free Nationals, conosce la fede funk del 33enne di radici afroamericane e coreane, che la mette in pratica con un vocabolario R&B, hip-hop e trap degno degli anni Dieci. A dargli manforte è Dr. Dre, che dall’alto dei suoi miliardi sceglie ormai progetti musicali ai quali tiene davvero, da Paak a Kendrick Lamar. Proprio il Premio Pulitzer da Compton partecipa sulla traccia Tints, dove i due fanno i conti con la popolarità e il prezzo da pagare, una vita senza privacy.

Il cast di rapstar è degno della popolarità raggiunta dopo le fatiche, i tentativi e i rischi narrati in Saviers Road: c’è Pusha T tra le reminiscenze bibliche di Brother’s Keeper; il già citato Dr. Dre in una parabola sulla ricchezza intitolata come un antico re del Mali, Mansa Musa; Snoop Dogg nell’omaggio al G-funk e ai gruppi vocali anni ’90 Anywhere; J. Cole nella vulnerabile Trippy; Q-Tip nella scintillante Cheers dagli echi Motown e jazz.

Nonostante lo scarso impatto delle ritmiche, il groove del disco è tangibile e si misura nel tocco neo-soul di Erik Griggs su Cheers, nel ribollire di Kelsey Gonzales sulla sensuale Headlow, nel morbido e lisergico synth bass di Smile/Petty, nel virtuoso rimbalzo di Thundercat in Left to Right, che ricorda le roventi jam dal vivo di Paak.

Con timbro nasale e liquido il cantante e rapper scivola dal parlato al melodico con una fluidità rara, come molti suoi colleghi sognano di fare. Ma Oxnard ha il tocco della vecchia scuola, e sulla scia di maestri come i Parliament Funkadelic mescola personale e politico, carnale e ideale, reale e immaginario: l’esempio migliore è 6 Summers, dove tra un beat quasi latino, melodie agrodolci e allusioni a Gil Scott-Heron, si racconta di un figlio illegittimo di Donald Trump e si parla di armi da fuoco. Un altro mondo è possibile, ci dice Paak, ma forse solo nelle nebbie di un sogno allucinato: non una fuga, piuttosto un ritorno a casa sgommando in Lamborghini, per predicare coolness, voglia di divertirsi e sintonia, in «una nazione unita sotto lo stesso groove».