Condividi su

Ci sono teste pensanti, teste parlanti, teste vuote, di legno o anche di peggio. Quelle di cui parliamo sono in plastica, lattice e metallo e fanno una cosa semplice: ascoltano, ma lo fanno in un modo straordinario. Passato, presente e futuro di una tecnica che sta rivoluzionando il modo in cui ascoltiamo la musica.

[di Valentina Giampieri – articolo integrale pubblicato su Vinyl n.10 / continua da Registrazione binaurale: una questione di testa – pt.2]

Un approccio diverso

Per chi controlla la testa, l’approccio al proprio lavoro cambia, ma la stessa cosa accade anche a chi viene registrato. «Sicuramente una delle cose più importanti è la scelta del luogo», spiega John De Leo, ex membro dei Quintorigo, che con Franko e Stefano ha registrato alcune tracce del suo secondo album Il grande Abarasse (2014). «E non è soltanto questione di trovare un’acustica favorevole, per esempio un certo tipo di riverbero, ma anche di “raccogliere” il suono del luogo e di raccontarlo. Faccio un esempio che spiega gli errori che ho fatto approcciandomi a questa possibilità sonora. Franko ha registrato un concerto che ho tenuto in Sicilia e, per restituire la dimensione del luogo e delle persone, usare questo tipo di apparecchiatura è ottimale. Io, però, in quell’occasione immaginavo una registrazione classica, per cui gli ho detto: “Sono arrivato, allora ci vediamo domani e registriamo”. Sbagliavo, il suo lavoro non è servito a nulla, perché il luogo in cui mi sono esibito non aveva delle particolarità uditive da registrare, non c’era alcun valore aggiunto: era al chiuso, in un club. Quindi tutto quello che ho registrato è stato assolutamente inutile, se non che magicamente, come in un film con i Pink Floyd, è passato un elicottero, che abbiamo avuto la casualità e la fortuna di poter registrare. E che sembra veramente provenire proprio da sopra la testa dell’ascoltatore. Anche registrando in studio, ovviamente, ci sono dei limiti in questo tipo di registrazione: per esempio, non si possono fare tagli. Non sarebbe una restituzione reale della dimensione dello spazio. Ma funziona perfettamente se l’esigenza del compositore è quella di far percepire da dove provengono i suoni, com’è disposta l’orchestra, insomma se la disposizione stessa fa parte del pensiero compositivo».

Anche il Banco del Mutuo Soccorso ha sperimentato la registrazione binaurale con Terzo Orecchio, per il momento soltanto nella dimensione live. «E una sensazione affascinante da morire», racconta Vittorio Nocenzi, compositore, pianista e fondatore della band romana. «Ti dà un contatto emotivo con chi sta suonando superiore a quello del suono stereo. Quando abbiamo registrato un concerto con la tecnica binaurale, abbiamo cercato di essere il più possibile naturali. Nel caso del live, più ti comporti naturalmente, più esalti questo tipo di ripresa. È un fatto anche di emotività, di interpretazione. Non devi caricare di troppa attenzione la performance, altrimenti perde di linearità. Insomma puoi interpretare delle cose sopra le righe o al di sotto e alteri poi quell’attimo fuggente in cui è il suono che ti guida le dita».

Una tecnologia (ancora) per pochi

Dopo aver sentito i pareri entusiastici degli artisti che hanno lavorato con il binaurale, ma anche dopo aver ascoltato con le nostre orecchie alcuni esperimenti in questo senso, viene da chiedersi per quale motivo si tratti di un settore ancora molto di nicchia.
Soprattutto se si pensa che stiamo parlando di una tecnologia nettamente più economica di quella “classica”, fosse anche solo per la quantità inferiore di materiali impiegati.

«Per lavorare in questo modo –spiega Stefano Arciero –occorre andare un po’ oltre i luoghi comuni e aver voglia di sperimentare. Oggi si va molto di fretta, anche nella musica. Invece di prendersi del tempo, che so, per andare a registrare le chitarre in riva al mare, si preferisce registrare in uno studio insonorizzato, asettico e poi aggiungere gli effetti. Un’altra caratteristica del nostro tempo è che, soprattutto nel pop-rock, in studio si registra uno per volta, non si suona quasi mai insieme. Non a caso, la nostra attività è stata svolta prettamente con musicisti che fanno prog, classica o jazz».

«Il suono di una registrazione in studio dove tutto è meravigliosamente pulito e ogni strumento è messo in primo piano può piacere, ma per me la musica è fatta di dinamiche», prosegue Franko. «Oggi quando senti la musica che suona forte tutti si esaltano: che dinamica! Ma la dinamica è proprio il contrario, non significa che tutto è forte. La dinamica è la distanza fra il pianissimo e il fortissimo. Lo capisci quando senti un brano di Vasco Rossi, che è quello che ha le dinamiche più schiacciate del mondo, e lo confronti con un vecchio disco della P.F.M. o del Banco del Mutuo Soccorso: nei loro dischi, quando un pezzo comincia con un arpeggio di chitarra, puoi sentire che inizia piano, poi entrano gli altri strumenti e il volume cresce. Cito Vasco perché è il più famoso e fa scuola, ma ormai praticamente lavorano tutti così, basta vedere la forma dell’onda di una registrazione anni ’70, una degli anni ’90 e una di oggi. Nei dischi che hanno fatto la storia hai onde con forma prima bassissima, poi ampia, poi alla fine si stringe. Le forme di oggi sono tutte al massimo, uguali, sempre. Un pezzo pop-rock del 2019 inizia con un arpeggio di chitarra ed è già al massimo, già raggiunge il livello zero; quando entrano gli altri strumenti rimane sempre a zero, perché oltre zero non puoi andare.  Mi chiedo, a che cosa serve bisbigliare o urlare, se i suoni hanno sempre lo stesso volume. Mi fa pensare a un film di Batman che ho visto qualche anno fa. C’erano l’esplosione di un palazzo e poi una scazzottata, ma il rumore dei pugni era più forte di quello della bomba! Chi registra in binaurale è qualcuno che ha un’identità di artista ben precisa e vuole essere diverso dagli altri».

Che cosa ne pensano in proposito loro, i musicisti?
«A qualsiasi artista conviene offrire la cosa più pulita e più vendibile possibile», dice John De Leo. «I computer e i plugin fanno sì che anche un suono brutto o una voce sgradevole appaiano comunque belli. Nondimeno, il suono a cui siamo tutti abituati è diventato ormai un fatto culturale. Se non sentiamo queste frequenze molto frizzanti che il Cd ha sdoganato, abbiamo la sensazione di non sentire perfettamente. Per le nuove generazioni è questa la tipologia dell’ascolto, quindi per un ragazzo di oggi una registrazione binaurale risulta ovattata».

Dall’alto della sua esperienza, Vittorio Nocenzi rincara la dose: «È una carenza culturale nei confronti della musica in genere, che in Italia la fa da padrona. Purtroppo noi abusiamo da decenni del luogo comune della “patria del bel canto”, ma nella realtà siamo decisamente indietro per quanti riguarda la cultura musicale. Parlo della diffusione, del significato che si dà a un concerto, all’ascolto della musica. In italia, a scuola, ti insegnano la musica con un flauto di plastica. Se vai in Germania, scopri che a scuola la musica la insegnano con l’oboe, con il violino, con il clarinetto. Io credo che, di base, ci sia un equivoco preciso: per gli italiani la musica è prevalentemente un’occasione di intrattenimento, dimenticando completamente l’emozionalità che un concerto dona agli ascoltatori. La musica è anche convivio, ma è innanzitutto una dimensione spirituale emotiva, incredibilmente interiore, individuale. Se siamo in mille persone ad ascoltare un concerto, be’, si tratta mille concerti diversi. Ognuno lo fa proprio attraverso la sua individualità. Quello che poi lascia un concerto vissuto bene è una spiritualità che non può essere liquidata esclusivamente come un momento di intrattenimento. Ma la verità è che la spiritualità oggi viene ridicolizzata. Secondo me, la più bella definizione della musica l’ha data Leonardo: “Raffigurazione dell’invisibile”».

[Foto di: T.A.V. Multimedia. Andreu & Vila – licenza  Creative Commons Attribution 2.5 Generic]