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Ci sono teste pensanti, teste parlanti, teste vuote, di legno o anche di peggio. Quelle di cui parliamo sono in plastica, lattice e metallo e fanno una cosa semplice: ascoltano, ma lo fanno in un modo straordinario. Passato, presente e futuro di una tecnica che sta rivoluzionando il modo in cui ascoltiamo la musica.

[di Valentina Giampieri – articolo integrale pubblicato su Vinyl n.10]

Lou Reed è in studio di registrazione. Sta lavorando al suo nuovo disco. Ovunque, attorno a lui, ci sono teste mozzate.
Non si tratta del set di un episodio del Trono di spade, siamo nel lontano 1977 e l’ex Velvet Underground ha una nuova fissa: la registrazione binaurale.

Audiofilo da sempre, malgrado le apparenze (il suono “sporco” di diversi album) ha appena scoperto l’esistenza di un congegno in grado di catturare il suono nella stessa maniera in cui viene percepito dalle nostre orecchie: a 360 gradi. L’invenzione, brevettata dall’ingegnere tedesco Manfred Schunke, ha proprio le sembianze di una testa umana.

Una tecnologia che ha più di 100 anni

I primi esperimenti con questo sistema risalgono a un centinaio di anni prima.
Gli impianti di amplificazione ancora non esistono e l’unico modo per ascoltare i segnali audioelettrici è usare l’auricolare della cornetta del telefono.

Nel 1881 nasce il théâtrophone: Clément Ader posiziona una serie di microfoni in carbonio, a coppie, sul bordo anteriore del palco dell’Opéra Garnier di Parigi e trasmette l’audio attraverso due linee telefoniche, una per ogni orecchio, ad ascoltatori che si trovano anche a più di tre chilometri di distanza dal teatro.
Un secolo dopo arriviamo alla famosa testa artificiale: nel 1972 la compagnia tedesca Neumann presenta a Berlino il KU-80, il primo sistema di registrazione binaurale in commercio. Con sembianze umane.

Ma torniamo a Lou Reed. Ritchie Fliegler, il chitarrista che lavora con lui in quel periodo, ricorda: «Lo studio era uno spettacolo da non perdere, avevamo il nostro amplificatore, ma invece di avere di fronte il microfono, c’erano teste tutto intorno, teste sui bastoni come se Vlad l’Impalatore stesse facendo un disco con le sue vittime».

Nel 1978 esce Street Hassle, il prodotto di quelle inquietanti sessioni e il primissimo caso di album pop-rock in cui è stata impiegata la registrazione binaurale. Vlad, pardon, Lou si servirà di questa tecnica anche per Live: Take No Prisoners (1978) e The Bells (1979), poi la sua cotta per le teste finirà.

Una lunga sperimentazione

«Credo che Lou Reed non abbia continuato su questa strada, perché all’epoca la testa era ancora un prototipo», spiega Franco Russo (a.k.a. Franko), fondatore di Terzo Orecchio, il laboratorio portatile di registrazione binaurale più conosciuto in Italia. «Il KU-80, per esempio, venne ritirato dal commercio e gli ingegneri della Neumann ci lavorarono per altri dieci anni».

Garantire su nastro un ascolto il più possibile simile a quello delle nostre orecchie non è affatto semplice.
«Ci sono implicazioni che vanno oltre la mera elettronica. Bisogna rispettare la tridimensionalità, quindi non può trattarsi semplicemente di un microfono d’ambiente, che cattura i suoni senza tener conto della loro posizione. Quando ascoltiamo, noi siamo in grado di capire se un suono arriva da destra oppure da sinistra, se sta di fronte a noi oppure dietro. Con il binaurale si è provato a ricreare tutto questo. La questione però è complicatissima: l’udito non è perfettamente uguale per tutti, quindi è stato necessario considerare una serie di parametri, le diverse forme di padiglioni delle orecchie, la massa delle cavità interne, e fare una media. Quei pazzi degli ingegneri Neumann hanno preso quasi cinquemila calchi di padiglioni auricolari da addetti ai lavori, tecnici audio, direttori d’orchestra, musicisti. Il KU-100, il capoccione che utilizzo io, è il prodotto di una media fatta a computer».

Anche Peter Gabriel e i Pearl Jam sono stati conquistati dal top di gamma della Neumann.
Peter Gabriel verso la fine degli anni ’90 ha registrato con un’orchestra sinfonica Signal to Noise, un brano poi incluso nell’album Up.
Inizialmente lo ha fatto nel modo tradizionale, poi però in fase di missaggio non era soddisfatto e ha chiamato Tchad Blake, che aveva già lavorato con lui ed era uno dei pochissimi che si occupavano di questa tecnica. Per evitare di dover rifare tutto, ha affittato un teatro, riprodotto gli archi con degli altoparlanti e registrato proprio con il KU-100. In modo che il suono dell’orchestra prendesse anche l’ambiente e l’acustica del teatro.
Tchad Blake, sempre con il capoccione, ha lavorato ad alcuni brani di Binaural dei Pearl Jam. In binaurale appunto.

[Foto di 2014AIST – licenza Creative Commons Attribution 3.0 Unported / continua con la seconda parte domenica 6]